Tiziano Terzani: un’idea della morte e della vita

(da “Cucù”, ultimo capitolo del volume “La fine è il mio inizio – un padre racconta al figlio il grande viaggio della vita”, Longanesi 2006)

Tiziano: Sento di aver fatto un viaggio – il viaggio più lungo, che è quello della vita – in cui davvero sono arrivato a destinazione. Sono al capolinea e non voglio prendere il tram che torna indietro. Folco, che bella storia è questa, con te che sei stato qui con me! Sai, potevi avere un lavoro e sarebbe stato impossibile passare tre mesi insieme.

Folco: Sarei venuto solo per il fine settimana.

Tiziano: Siamo fortunati, ci siamo tutti e due inventati un modo di essere. Va be’, io arrivederci, ormai ho pochi giorni da vivere su questa terra, in questo mondo. Ma vedo che anche tu, ora…

E’ stata una lunga chiacchierata, e io sono ancora qui che aspetto e godo di questa natura. Abbiamo incominciato quando c’era il cuculo e ora il cuculo non c’è più.

Il primo d'aprile
il cucco ha da venire,
E se l'otto non è arrivato,
È morto o è malato.
Per tre mesi canta il cucco,
Aprile, maggio e giugno tutto.

Bellissimo, perché il cuculo ha adempito al suo destino. Ha trovato il nido di un altro, ha buttato via le uova, ci ha messo il suo ed è volato via. E i nuovi cuculi canteranno nella prossima primavera.

Nel cinguettio degli uccellini che si sente tutto attorno non c’è più, è vero, la voce del cuculo.

Folco: Le butta proprio fuori, le uova di quell’altro, o ci aggiunge le sue?

Tiziano: Sì, sì, sì, le butta fuori! Le beve o le rompe, insomma le sciupa. Lo chiedi a Mario e alla Brunalba e loro te lo raccontano. Questo uccello, quando è il momento di nidare si rompe i coglioni. Sta negli alberi, cerca il nido di un pettirosso, gli butta fuori le uova e ci mette il suo, perché il cuculo ne fa uno solo. Quando la mamma pettirosso torna non si accorge di nulla e glielo cova. Il pettirosso è un uccello proprio bischero, un altro non lo farebbe. Solo quando l’uovo si apre vede che non è il suo, è un cuculo!

Fa una lunga risata fioca.

E’ bello, no? E la natura continua. Tu che muori, ma che gliene importa! C’hai male, e va be’, passerà. Passa tutto, passa anche il male.

E’ qui dove la natura di per sé è una grande, grande, grande maestra. Se ti fermi un attimo e ti metti a osservare le foglie di quella betulla che tremolano così misteriosamente e amorevolmente nel vento, vedi che la mia condizione, la condizione del mio corpo che dà tutti questi problemi, è assolutamente irrilevante. La natura è lì, maestosamente distaccata, non si commuove, non si eccita. Allora, perché non imparare questa lezione di non eccitarsi, non commuoversi, non piangere?

E’ così, è così. E lasci che tutto succeda senza che questo sia una tragedia. Perché non lo è. Per nessuno. Non certo per quest’albero, per questi prati, per quei piccoli fiori gialli che nessuno nota. Ma loro maestosamente ogni giorno crescono e cambiano.

Guardati attorno, il fiume, questi boschi, questa natura bellissima che diviene in continuazione, nel suo solo modo di divenire che è quello di ridiventare quello che è stata l’anno passato, nel completo distacco da quello che succede agli uomini. La cronaca dei giorni, le bombe, Pol Pot, Mao, l’America e il terrorismo, ma che gliene importa! E’ tutta una cosa passeggera, effimera. Queste civiltà straordinarie, tutte spazzate via, via. La Sfinge che esce dalla sabbia e guarda il mondo, e non c’è più nulla. Sarà così di tutto.

Ma eccoci qua.

Ah, che meraviglia questa Orsigna! E’ la mia stazione finale. E’ il mio punto d’arrivo. E l’avevo intuito che dopo tutti i miei grandi amori in Asia – il Vietnam, la Cambogia, la Cina, poi l’India – in fondo l’Orsigna sarebbe stato il mio ultimo amore. Mi ci sento così a casa, così bene in questo abbraccio della natura allo stato puro, che è il più bell’abbraccio di grandezza e di bellezza che puoi avere. Questa bellezza in qualche modo ti entra dentro e ti dà una dimensione di qualcosa che non ti appartiene, ma che è anche tuo e di cui sei parte.

Dinanzi a tutto questo la tua esistenza è una piccolezza, è lo starnuto di una formica. La mia morte – pfft! È da ridere. Pensa, in questo momento quanti uccellini muoiono, quante formiche vengono pestate, quanti uomini muoiono di malattia, di vecchiaia, di violenza. Muoiono tutti. Lo dice bene il dio Krishna, tutto quello che nasce muore e tutto quello che muore nasce. Anch’io la fine la sento come un inizio. L’inizio è la mia fine e la fine è il mio inizio. Perché sono sempre più convinto che è un’illusione tipicamente occidentale che il tempo è diritto e che si va avanti, che c’è progresso. Non c’è. Il tempo non è direzionale, non va avanti, sempre avanti. Si ripete, gira intorno a sé. Il tempo è circolare. E questo lo sento così forte. Lo vedi anche nei fatti, nella banalità dei fatti, nelle guerre che si ripetono.

Gli indiani questo ce l’hanno profondo dentro di sé. Tutta la loro mitologia è basata sul continuo ciclo di distruzione e creazione. Lì hanno ragione, non c’è creazione senza distruzione,per cui nella loro trinità c’è il creatore, il mantenitore e il distruttore. Il distruttore passa e – vrumm! Distrugge tutto, così che il creatore può ricreare, il conservatore può conservare, il distruttore può ridistruggere.

Questo, non dico che è consolante perché io spero di ritornare, anzi, per niente. Credo che una delle poche cose che ho imparato, che mi sono entrate dentro vivendo da solo nella baita sull’Himalaya, è la rinuncia ai desideri, che è la vera, ultima forma di libertà. E credo che ci sono riuscito. Non desidero più niente. Non desidero certo più la longevità, ormai. Ma non desidero nemmeno l’immortalità, questo dire “Finisce , ma ricomincia e questo mi consola”. No, non è questo che sento, è la bellezza, la bellezza che ciò che finisce ricomincia. Perché così è l’universo. Perché dentro a un seme che cade per caso c’è già un albero enorme. Caduto, il seme sembra morto, finito. E ricomincia. Questa bellezza mi piace, questa bellezza che vedo dappertutto, ormai, e che vedo per giunta nella fine della mia vita terrena.

Sento questa mia vita che sfugge, ma che non sfugge, perché è parte della stessa vita di quegli alberi. Una cosa bellissima, il disfarsi della vita del cosmo ed essere parte di tutto. Questa mia vita non è la mia vita, è la vita dell’Essere, è la vita cosmica di cui mi sento parte. Per cui non perdo niente, staccandomi dal corpo io non perdo niente. Allora, questa è la fine ma è anche l’inizio.

E l’immagine che mi viene in mente quasi ogni giorno del mio abbandonare il mio corpo è quella di un monaco zen che si siede nel silenzio della sua cella, prende un bel pennello, lo intinge nel mortaio dove ha sparso la china e poi si raccoglie davanti al pezzo di carta di riso e con grande concentrazione fa un cerchio che si chiude. Ma un cerchio, non fatto con il compasso, un cerchio fatto con l’ultimo gesto della mano su questa terra. La vita si conclude.

In verità, questo ciclo è quello che io ora cerco di concludere.

Credo che la vita da eremita che ho fatto per un po’ mi ha messo in contatto con il senso della incredibile impermanenza di tutto. E’ la cosa più bella, questa constatazione che tutto è impermanente. E accettare quello che l’Asia ha capito da tempo, che non c’è gioia senza sofferenza, che non c’è piacere senza dispiacere. Allora ti stacchi, ti allontani, non con indifferenza nei confronti degli altri, che puoi anche amare, ma senza esserne schiavo, perché anche la vita di tutti quelli che ami passa, passa.

E questo meraviglioso cimitero che è la terra continuerà, immenso. Tutto è lì. Letame e cenere. Poi torna prato. A me, devo dire, a pensarci ora, non mi rattrista questo, anzi.

Esce di casa Saskia con in braccio Nicolò

che fa dei piccoli gemiti sereni.

Saskia: fai un ruttino,dai…

Tiziano: Questo è il bello della vita, no? Nasci…guardalo lì!

Indica il nuovo nipotino

E’ niente, ma ogni giorno lui diventa lui, accumula esperienze, chiacchiere, memorie, saggezza se vuoi, successi, insuccessi, e questo gli dà l’identità. Così diventa lentamente Nicolò. Ogni giorno, ogni giorno si accumula Nicolò. E’ tutto un costruire.

Mi guardo indietro. Questo ragazzino, nato in una città, povero, che cerca il riscatto non con i soldi, non con il potere, non mettendo su un impero, ma creandosi un’identità, cercando di diventare qualcuno che cambia il mondo…Voglio dire, io non cambio niente, ma questo era l’impegno. Per questo ho studiato legge, per questo ho voluto fare certe cose e non altre, non andare in banca ma fare il giornalista. Questa è la storia della mia accumulazione, di come sono diventato giornalista, viaggiatore, scrittore, tutte queste cose. E trovo bellissimo che tutto quello che ho costruito – bumm! Alla fine non sono più niente, non voglio essere più niente, non cerco di essere niente. Non sono più Tiziano Terzani. Vivere una vita per diventare nessuno è un po’ strano.

Io sono stato tante cose, ma alla fine non sono nessuno.