di Sergio Labate, presidente di Libertà e Giustizia, agosto 2022
In questi giorni, osservando le mosse di Letta, mi è venuto in mente Prodi. Ma il Prodi di Corrado Guzzanti, quello che confessa di ispirarsi al “semaforo”: immobile mentre intorno corrono tutti. In effetti la sensazione che in troppi si sono agitati intorno al Pd a parte il Pd non è peregrina. Credo però possa essere utile partire dai fatti.
Un accordo tra il Pd e alcuni partiti di sinistra è stato raggiunto e, come una coperta troppo corta, sembra essere stato addirittura il pretesto per sciogliere il precedente matrimonio con Calenda (fortunatamente non c’è stato il tempo per consumarlo). Il fatto è che quest’alleanza con una parte della sinistra progressista sembra avere i crismi limitati di un accordo elettorale, tanto quanto quella con Calenda si presentava orgogliosamente come un accordo politico fondato sulla comune adesione all’agenda Draghi.
Ora, non credo si possa derubricare questo status differente dei due accordi a una (evidente, almeno per me) sopravvalutazione del peso elettorale di Calenda oppure al mito elettorale secondo cui si vince occhieggiando al centro. Non è Calenda il vero protagonista di questi ultimi giorni, è Draghi e la sua agenda. È su questo che il Pd deve chiarirsi le idee: chi vuole essere da vecchio (grande, è già abbastanza grande)?
Quel che è stato è piuttosto chiaro: nell’ultimo decennio è stato un partito di governo senza essere un partito di elezioni. Ha fatto il semaforo del sistema istituzionale italiano. Questa deriva governista ha avuto due momenti in cui il Pd non si è limitato a difendere il governo di cui faceva parte ma ha anche provato a riflettere su di sé.
Il primo momento è stato il trauma della segreteria Renzi. Che ha segnato con violenza la traiettoria politica di quel partito. Renzi ha provato a dire: noi non accettiamo politiche di centro-destra nostro malgrado, le accettiamo perché siamo così.
Il secondo momento è l’elaborazione collettiva che ne è seguita. Sia Zingaretti sia Letta si sono sempre dichiarati risoluti nel voler costruire un centro sinistra con i Cinque stelle. È legittimo modificare la propria identità politica complessiva per quel che è stato vissuto come un tradimento? Certamente. Ma il rischio che si corre è di perdere non tanto il valore aggiunto di un’alleanza, quanto la propria identità. Il rischio che si corre non è di restare soli, ma di non sapere più chi essere. Di scoprire di essere rimasti fermi, magari a difendere l’agenda Draghi o a sperare che, di nuovo, si possa tornare al governo senza passare per la strada maestra della vittoria delle elezioni.
Ecco perché non si tratta di capire con chi va il Pd ma chi voglia essere. La scelta, peraltro, sembrerebbe semplicissima. Anche solo per necessità. La destra radicale già spartisce ministeri, lo spazio di centro è saturo. E una parte del paese è completamente senza rappresentanza. Basterebbe riconoscere che questo spazio è il luogo della propria identificazione per riprendere quel cammino – piuttosto timido – intrapreso a seguito del trauma Renzi. Del resto se non trova un modo per rappresentare questo spazio, nei contenuti, nei nomi e nelle alleanze, la conseguenza inevitabile è consegnare il paese a un esperimento politico in grado di mutare geneticamente la nostra democrazia. Perché di fronte a tutte queste evidenze il Pd continua a stare fermo, come un semaforo? Qui le risposte si complicano e richiedono di avanzare un’ipotesi radicale e provocatoria. Ma che ha forse il pregio di connettere quanto sta accadendo a una tendenza europea, permettendo una contestualizzazione troppo spesso ignorata.
Come molti sanno, uno dei processi più rilevanti prodotti nell’ultima campagna elettorale francese è lo “spostamento della demonizzazione”. Dopo anni in cui il fronte repubblicano si era unito dinanzi alla minaccia Le Pen, per la prima volta Macronha effettuato uno spostamento: tra Le Pen e Mélenchon il pericolo maggiore per la democrazia è diventato il secondo. Buona parte (non tutta) della sua campagna elettorale è stata un gioco di sponda tra progressiva istituzionalizzazione della destra neofascista e delegittimazione della sinistra più radicale.
Temo che dietro le scelte di questi giorni vi sia proprio la tentazione del “momento Macron”. È anche grazie a Calenda se questo nodo è giunto al pettine. Il Pd vuole definitivamente essere un partito macronizzato? Se così fosse, tutto sommato si capisce perché la destra radicale non gli faccia così tanta paura da meritare uno straccio di accordo che renda le elezioni realmente contendibili. Sulle riforme costituzionali c’è un consenso di fondo: la destra si avvia a compiere definitivamente quella svolta presidenziale e maggioritaria che era nelle corde originarie del Partito Democratico. Sulle politiche economiche non vi è dubbio che vi siano ancora differenze. Ma in fondo buona parte del PD se dovesse scegliere chi gettare dalla torre tra flat tax e reddito di cittadinanza sacrificherebbe quest’ultimo e accetterebbe la prima.
Come si capisce, non sottovaluto affatto il travaglio di queste ore. Anzi, lo giudico riconoscendone un passaggio decisivo per il futuro di questo paese. Se Letta riproporrà la scelta di Macron – legittimare la destra radicale e ostracizzare la sinistra – assegnerà al suo partito a una logica ben precisa. Quella per cui non si tratta più di perseguire una democrazia degli uguali ma piuttosto una democrazia in cui le diseguaglianze vengono considerate “condizioni strutturali di giustizia”.
Per un partito macroniano si tratta in fondo di inserire meccanismi compassionevoli che però non compromettano l’effetto capitalistico che disegna la società secondo criteri di giustizia diseguale. È per questo che abbiamo di fatto sostituito nella discussione pubblica il paradigma della giustizia con quello del merito. Che cos’è giusto? Ciò che è meritato. Sfido chiunque si riconosca oggi nelle posizioni della destra radicale e del centro a dichiarare il proprio disaccordo con tale risposta.
Ecco, in una prospettiva storica di questo genere – prospettiva che investe l’intera figurazione delle democrazie europee – è del tutto comprensibile che la destra radicale possa esser vista come meno minacciosa della sinistra. Perché la sinistra europea – comprese alcune svolte socialdemocratiche che sono state evocate in modo del tutto strumentale in questi giorni – ha sempre ritenuto che il compito della democrazia fosse di correggere la tentazione capitalistica di sclerotizzare le diseguaglianze.
Si potrebbero fare altri esempi e anzi credo sarà necessario, dopo le elezioni di settembre. Ma intanto quest’ipotesi permette forse di spiegare meglio ciò che sta davvero accadendo e, forse, anche il travaglio di Letta. Quale delle due rappresenta una minaccia più grande: una democrazia che sfidi le diseguaglianze ripristinando il primato della politica oppure che una democrazia che si svuoti dei suoi equilibri e finisca per diventare illiberale?
Qualunque scelta faccia il Pd, il programma per il futuro è vasto ma necessario: la ricostruzione della sinistra deve partire precisamente dal rovesciamento della convinzione secondo cui una democrazia illiberale sia, alla fine dei conti, molto più tollerabile – e forse più attraente elettoralmente – di una democrazia sociale.
Aria di regressione
di Massimo Marnetto, 22 Agosto 2022
La destra è centripeta. Il suo programma prevede la concentrazione di potere (presidenzialismo) e di ricchezza (flat tax). Il messaggio è chiaro: la società va semplificata dalla confusione democratica. Pochi a comandare, molti a eseguire, nessuno a contestare. La pretesa di giustizia sociale deve essere revocata, perché crea odio e invidia tra ceti. La povertà va colpevolizzata, per esentare i ricchi da responsabilità.
Blocco dell’ascensore sociale: ognuno deve rimanere al suo posto, quello assegnatogli per nascita: l’aspirazione al miglioramento crea tensione. La religione deve tornare a svolgere il suo compito tradizionale di potenziare il conformismo, condannare rivalse, esaltare la sopportazione, collaborando al ripristino della gerarchia Dio, Patria, Famiglia.
Sento aria di regressione in giro. Temo l’effetto-Zanicchi ai tempi di B.: proviamo la destra, se non ci piace, cambiamo. Avverto la voglia di scambiare protezione con sottomissione. La libertà di pensiero non ha valore per chi non ha un pensiero. La complessità nasconde l’inganno; la semplicità affascina. La siccità di cultura appassisce i valori e disidrata la Costituzione. Possiamo reagire. Dobbiamo reagire.
- La differenzaÈ infatti enorme la differenza tra la guerra e la pace. E la tragedia è proprio questa, che la guerra si concede una pausa per riprendere ancora più incondizionata di prima. E ciò perché questa non è neanche degna di essere chiamata guerra, perché le guerre si fanno per ottenere qualcosa, che è la posta in gioco della guerra. Invece questa è una guerra che ha per fine la negazione reciproca dell’esistenza dell’altro. E attraverso un rovesciamento di ciò, nella costruzione di una umana convivenza tra i membri del popolo palestinese e i cittadini ebrei dello Stato di Israele, che può istituirsi, non una tregua, ma la pace
- ScendereMi tocca difendere il Ministro Lollobrigida, perché la sua richiesta di fermata del treno in ritardo, per proseguire in auto, era motivata da un interesse pubblico istituzionale, prevalente su quello privato degli altri passeggeri. Ovvero la sua presenza come Ministro – cioè a nome dello Stato – a Caivano, per inaugurare un parco ad alto valore simbolico, come riscatto di un territorio abbandonato al degrado e alla criminalità. (Marnetto)
- La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con IsraeleLa feroce rappresaglia di Israele nella striscia di Gaza, accompagnata da un’ aggressiva reazione dei coloni nella Giordania occupata, rischia ora di compromettere, a vantaggio di Hamas, anche il fragile compromesso con i paesi arabi moderati, avviato col “patto di Abramo” e la compiaciuta assistenza degli Stati uniti. La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele.I Paesi arabi moderati, gli alleati di sempre, il lato debole della geopolitica americana prigioniera di Netanyahu in Medio Oriente. Prima tra tutti la Giordania. Re Abdullah II di fronte alla devastante reazione israeliana ai massacri di Hamas, sta per rivedere la trentennale ‘pacificazione’ con Tel Aviv, ma anche le relazioni privilegiate con Washington
- Professione reporter dopo il 7 ottobre. I dubbi di Eric Salerno (e non soltanto)Come è stata l’informazione dal 7 ottobre a oggi, ossia da quando i palestinesi –‘militanti di Hamas’, ‘terroristi’, ‘nazisti’, ‘criminali di guerra’, ‘partigiani’, ‘combattenti per la libertà’ o altri termini scelti da chi giudicava e raccontava – hanno dato l’assalto a Israele? Cosa sono oggi i giornalisti o fotografi ‘embedded’? Cosa rappresentano i palestinesi arabi che lavorano per i grandi media; giovani o meno che raccontano da Gaza? E la stampa israeliana? Quella italiana?
- PazzoGuardo l’Argentina e penso all’Italia. Nella nazione del Sud America la povertà si è talmente diffusa da risucchiare nell’angoscia metà della popolazione. I poveri prima smettono di votare (astensione), dopo scelgono il ”pazzo” più distruttivo del sistema che li ha affamati. E questo processo è più rapido se c’è l’elezione diretta del presidente (o del premier). (Marnetto)