Dal sito “Olnews”, dove trovo di frequente articoli interessanti sull’attualità politica, vi propongo il commento di Fausto Anderlini, sociologo, all’appello di Letta per un “voto utile” al PD che impedisca alla destra di stravincere, come purtroppo molti sondaggi lasciano prevedere. Il titolo “birichino” è
Dal voto utile al voto compassionevole
Questa legge elettorale non è più brutta di molte altre, “porcate” comprese. Con l’accorgimento del voto disgiunto fra lista e candidato uninominale non sarebbe stata neanche tutta da buttare.
All’epoca Leu chiese insistentemente questa miglioria, ma il Pd renziano tirò dritto e impose il voto di fiducia. Lo scopo era evidente: imporre una camicia di forza per impedire libere scelte capaci di influire sui rappresentanti nominati dalla cricca di potere.
Dunque anche a questo proposito Letta dovrebbe fare come con il job act, cioè un’autocritica postuma. L’ennesima. Ma non è questo il punto.
Sino all’ultimo Letta ha snobbato una eventuale riforma elettorale in senso proporzionalista. E con ragione. Io stesso ho approvato questa scelta anche in disaccordo con molti carissimi amici e compagni orientati al proporzionale.
Per chi segue una politica coalizionale la legge maggioritaria è un vantaggio perché incentiva la ricerca di alleanze. Per quanto riguarda il centro-sinistra anche un vantaggio tattico. Soprattutto guardando alla distribuzione territoriale dei suffragi, decisamente favorevoli all’accoppiata Pd/5S.
Con la destra iperconcentrata al Nord (tutta l’espansione di Fd’I è avvenuta al nord), il Pd forte nel centro e i 5S al sud, almeno il 60 % dei collegi sarebbe stata appannaggio del “campo largo”. Anche facendo a meno dei “centristi” del terzo polo. Se non la vittoria, almeno il pareggio, non esclusa la possibilità, in questo caso, di un ritorno del caro estinto….
Quello che risulta inspiegabile è il voltafaccia di Letta, cioè la rottura dell’alleanza e la decisione di immettersi in una logica proporzionalista. Decidendo di giocare a basket con le regole del baseball. Se vogliamo usare un esempio ancor più eterotopico e surreale: decidendo di allearsi con Zelensky contro Conte.

Dunque, ancor più paradossalmente, con la Meloni dichiarandola nel contempo nemico esiziale. (Sicché seguendo la logica non è affatto balorda l’idea propugnata da Calenda di un’alleanza di governo fra Pd, centristi e Fd’I, smarcando ai lati Conte e Salvini…)
Personalmente io non nutro nessun odio verso il Pd, e men che meno per la dirigenza di Articolo uno che ha deciso di candidarsi nella sua lista. Ad essi auguro con tutto il cuore di riuscire eletti perché ho assoluta certezza del contributo che essi sapranno dare alla causa della sinistra una volta riconosciuto l’errore.Nella ricostruzione di un campo progressista, dopo la disfatta, il Pd non potrà non esserci. Bello o brutto che sia. Intero o a pezzi e bocconi.
Piuttosto nutro una profonda commiserazione per la scellerata conduzione che ha portato le cose a questo “cul de sac”. Dopo tante e ripetute prove in materia di condotta irrazionale e antiutilitarista l’arma del voto utile è spuntata in partenza, mentre Geremia Bentham, padre filosofico del paleo-liberismo, si rivolta nella tomba. Fossi in Letta ricorrerei semmai al “voto compassionevole”. Le ho, le abbiamo, sbagliate tutte. Perdonateci e dateci ancora una chance. Se lo fate appenderemo gli arti amputati al soffitto delle nostre sedi. Ex voto.
(Fausto Anderlini)
La guerra in Ucraina l’hanno già vinta le aziende americane degli armamenti
È quello che oggi intende dimostrare Piero Orteca su Remocontro. Che nella guerra in corso Washington abbia avuto fin dall’inizio un ruolo politico, finanziario e militare dominante nel supporto allo sforzo bellico ucraino contro la Russia lo danno tutti per scontato. Meno facile invece è leggere o apprendere in tv che gli Stati Uniti, oltre a fornire maggiori quantità di soldi, armi e munizioni rispetto ai partner europei, consegnano armamenti il cui impatto, pubblicizzato dalla propaganda bellica di Kiev, provoca ottimi ritorni sul piano commerciale. Come è sempre accaduto in tutti i conflitti.
“L’industria mondiale delle armi – ci rammenta Orteca – ha fatturato circa cinquemila miliardi di dollari in dieci anni. Anticipando quelle che sarebbero state le dinamiche del conflitto Russo-Ucraino, con il rafforzamento degli armamenti in diversi Paesi dell’Unione europea. Tra questi anche l’Italia, con il dichiarato incremento delle spese militari al 2% del PIL.

Chi si sta arricchendo di più?
“Sono tutti sinceri – si chiede dunque l’analista di Remocontro – quando parlano di “difesa dei valori ideali”, o sotto sotto si nascondono anche motivazioni meno nobili? Beh , si risponde, noi, al solito, facciamo parlare i numeri. Poi ognuno tragga le sue conclusioni. Terrence Guay (Penn State University) in un saggio analizza l’impatto “dei fallimenti militari russi”, in Ucraina, sull’industria globale delle armi e, in particolare, sull’export americano e su quello cinese. La sua tesi è che la “guerra di logoramento” europea sta spingendo il mondo a riarmarsi in maniera massiccia.
Russia consumatrice in proprio
“La Russia, uno dei grandi esportatori, però, è fuori gioco: deve utilizzare per sé la maggior parte di ciò che produce. E poi le sue armi, testate sui campi di battaglia, in molti casi si sono rivelate mediocri. Il suo mercato specifico, comunque, viene progressivamente riempito dalla Cina. E gli Stati Uniti? Fanno la parte del leone. Il “pericolo Putin”, la presunta foia russa di invadere l’Europa e gli allarmi che suonano a tutte le ore, hanno praticamente aperto alle lobby americane “dei cannoni” orizzonti sterminati. Progetti, ordinativi e commesse piovono, negli States, in modo torrentizio.
Mercato armi 2021, 39% Usa, 19% Usa
“Fino al 2021, gli Stati Uniti erano i “guerrafondai” del pianeta, col 39% complessivo di armi vendute e la Russia era al 2º posto, con il 19%. Bene, il docente della Penn University sostiene che la “vetrina” ucraina ha cambiato tutto. Secondo Business Insider, fino a giugno, Mosca aveva perso in battaglia più di mille carri armati, almeno 50 elicotteri, 36 cacciabombardieri e 350 pezzi d’artiglieria. Una vera ecatombe e non certo una buona pubblicità per le armi Made in Russia. Prima Putin riusciva a collocare il suo export bellico giocando sul rapporto qualità-prezzo. Ciò che vendeva costava meno della metà di analoghi prodotti occidentali e, non avendo lo stesso grado di “sofisticazione”, era anche più facile da utilizzare. Ma l’andamento delle operazioni in Ucraina ha sollevato generali perplessità nei “clienti” tradizionali di Mosca.
Armi meno costose e più semplici
“Tra il 2016 e il 2020 la Russia ha venduto 28 miliardi di dollari di armi a 45 Paesi. Il suo primo cliente è stata l’India, che ha importato il 50% dei rifornimenti per le sue forze armate (circa 6,5 miliardi di dollari in 5 anni). A seguire, ci sono stati poi la Cina (5,1 miliardi), l’Algeria (4,2), l’Egitto (3,3) e il Vietnam (1,7). Putin ha venduto di tutto: aerei, motori, veicoli corazzati, missili e sistemi di difesa aerea. Tredici Paesi hanno ricevuto avanzatissimi jet da combattimento MiG e Sukhoi (almeno 400). L’India ne ha comprati la metà e ha anche affittato sottomarini a propulsione nucleare da Mosca. Un “articolo” particolarmente richiesto è stato il sistema missilistico antiaereo S-400, esportato in Cina, India, Siria e, molto a sorpresa, anche in Turchia, Stato-pilastro della Nato. Adesso, però, con le sanzioni decretate dall’Occidente, gli scenari sono cambiati.
Le sanzioni sule tecnologie evolute
“Quelle “vere”, che colpiscono di più, ma nel medio-lungo periodo, sono le misure che bloccano l’export di tecnologia di ultima generazione. Il professor Guay sostiene che questo è il vero colpo al cuore, per l’industria degli armamenti russa. Mancando semiconduttori e altri pezzi di ricambio sofisticati, diventa impossibile o, comunque, difficilissimo, costruire aerei, droni, missili e veicoli blindati in grado di reggere la “concorrenza” con quelli occidentali. Insomma, i rovesci militari russi in Ucraina sono stati la migliore propaganda per l’industria degli armamenti americana. E, a ruota, anche per quella di Pechino.
L’industria militare cinese
“Cominciamo da questi ultimi. La loro ambizione è mangiare quote di mercato prima detenute dai russi. Per farlo, devono costruire armi migliori di quelle di Putin e altrettanto a buon mercato, magari sfruttando la loro filosofia di penetrazione, che sta dietro alla Belt and Road Initiative. La Cina ha costruito la Marina militare più numerosa del mondo. E adesso vuole dimostrare di essere in grado di impostare, armare e vendere navi da guerra tecnologicamente avanzate. Ma chi sono i veri “vincitori”, almeno finora, della guerra in Ucraina?
Armamenti, vittoria americana
“I produttori di armi statunitensi dominano l’industria globale di questo settore – risponde Terrence Guay – e la guerra in Ucraina permetterà che questa situazione continui per qualche tempo”.
- La metà dei primi 100 produttori di armi nel mondo si trova negli Stati Uniti, 20 sono europei e solo 2 sono russi. Così la crisi ucraina sta diventando, di fatto, una partita di giro.
- Degli ultimi 40 miliardi di dollari stanziati dall’Amministrazione Biden, per sostenere Kiev, quasi 9 miliardi dovranno essere spesi per ricostituire le “scorte di magazzino” delle armi cedute agli ucraini.
- Per i missili Javelin, per esempio, ci vorranno 4 anni. Con grande gioia della Raytheon, che li fabbrica.
- Lo stesso discorso si può fare anche per i missili Himars.
Wall Street patriottica
“Ma uno specchio fedele delle aspettative del mercato americano delle armi – conclude Ortecaè Wall Street. -. I titoli azionari delle principali società del settore si sono impennati, da Lockheed Martin (+ 12%) a Northrop Grumman (+ 20%), facendo presagire ai trader prospettive di buoni guadagni.
Certo, l’unica condizione per arricchirsi e per continuare a vendere armi in tutto il mondo è che la guerra di logoramento in Ucraina continui. Ma per questo, c’è già chi ci pensa.”
Pathos – politica
di Massimo Marnetto
Ripiove e il problema della siccità sparisce. Anche se è probabile che si riproporrà la prossima estate, nessun partito inserisce nel proprio programma misure drastiche per essere pronti alla nuova sete. Il motivo è semplice: si vendono bene le emozioni e inaugurazioni, mentre programmazione e manutenzione sono noiose.
Allora meglio sparare il petardo del presidenzialismo, che mettere in cantiere un vasto piano di innaffiamento a goccia. Meglio lanciare la fine dell’obbligo dell’azione penale – così cara a delinquenti e a onorevoli che li frequentano – che realizzare un piano straordinario di invasi per trasformare in scorte idriche le bombe d’acqua. Meglio rilucidare il progetto del ponte di Messina, che varare la riparazione degli acquedotti che perdono oltre la metà della portata.
Ma adesso piove e c’è la rogna del gas. Meglio aspettare la prossima siccità: l’emergenza per i danni causati fa più consenso della preveggenza per prevenirli. Nessuno ti vota per quello che hai evitato, perché non si vede. E’ la pathos-politica, bellezza.
- La differenzaÈ infatti enorme la differenza tra la guerra e la pace. E la tragedia è proprio questa, che la guerra si concede una pausa per riprendere ancora più incondizionata di prima. E ciò perché questa non è neanche degna di essere chiamata guerra, perché le guerre si fanno per ottenere qualcosa, che è la posta in gioco della guerra. Invece questa è una guerra che ha per fine la negazione reciproca dell’esistenza dell’altro. E attraverso un rovesciamento di ciò, nella costruzione di una umana convivenza tra i membri del popolo palestinese e i cittadini ebrei dello Stato di Israele, che può istituirsi, non una tregua, ma la pace
- ScendereMi tocca difendere il Ministro Lollobrigida, perché la sua richiesta di fermata del treno in ritardo, per proseguire in auto, era motivata da un interesse pubblico istituzionale, prevalente su quello privato degli altri passeggeri. Ovvero la sua presenza come Ministro – cioè a nome dello Stato – a Caivano, per inaugurare un parco ad alto valore simbolico, come riscatto di un territorio abbandonato al degrado e alla criminalità. (Marnetto)
- La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con IsraeleLa feroce rappresaglia di Israele nella striscia di Gaza, accompagnata da un’ aggressiva reazione dei coloni nella Giordania occupata, rischia ora di compromettere, a vantaggio di Hamas, anche il fragile compromesso con i paesi arabi moderati, avviato col “patto di Abramo” e la compiaciuta assistenza degli Stati uniti. La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele.I Paesi arabi moderati, gli alleati di sempre, il lato debole della geopolitica americana prigioniera di Netanyahu in Medio Oriente. Prima tra tutti la Giordania. Re Abdullah II di fronte alla devastante reazione israeliana ai massacri di Hamas, sta per rivedere la trentennale ‘pacificazione’ con Tel Aviv, ma anche le relazioni privilegiate con Washington
- Professione reporter dopo il 7 ottobre. I dubbi di Eric Salerno (e non soltanto)Come è stata l’informazione dal 7 ottobre a oggi, ossia da quando i palestinesi –‘militanti di Hamas’, ‘terroristi’, ‘nazisti’, ‘criminali di guerra’, ‘partigiani’, ‘combattenti per la libertà’ o altri termini scelti da chi giudicava e raccontava – hanno dato l’assalto a Israele? Cosa sono oggi i giornalisti o fotografi ‘embedded’? Cosa rappresentano i palestinesi arabi che lavorano per i grandi media; giovani o meno che raccontano da Gaza? E la stampa israeliana? Quella italiana?
- PazzoGuardo l’Argentina e penso all’Italia. Nella nazione del Sud America la povertà si è talmente diffusa da risucchiare nell’angoscia metà della popolazione. I poveri prima smettono di votare (astensione), dopo scelgono il ”pazzo” più distruttivo del sistema che li ha affamati. E questo processo è più rapido se c’è l’elezione diretta del presidente (o del premier). (Marnetto)