Dall’edizione di questa settimana del Centro per la riforma dello Stato propongo due piccoli saggi di attualità: a) un commento di Pasqualina Napoletano all’intervento dell’ex cancelliere Merkel in occasione dell’inaugurazione della Fondazione dedicata a Helmut Kohl b) e il commento di Simone Oggionni al vivace dibattito interno che si è aperto nel PD in seguito alla grave sconfitta subita dalla destra più estrema.
Merkel ha messo in guardia dal considerare le minacce del ricorso alle armi nucleari come un bluff e ha sottolineato che aprire canali di comunicazione con la Russia non costituisce un segno di debolezza ma di saggezza politica. Come molti ricorderanno, la signora Merkel è stata più volte autorevolmente indicata come la personalità più adatta a tentare con qualche probabilità di successo una mediazione tra Russia e Nato/Ucraina per riportare la pace in Europa.
CRS: Da Merkel pillole di saggezza – di Pasqualina Napoletano
In Italia il dibattito si va concentrando sugli ingenti stanziamenti che Berlino ha previsto per far fronte alla crisi; poca o nessuna attenzione a fatti politici di prima grandezza quali le recenti prese di posizione dell’ex Cancelliera Angela Merkel ed il voto contrario del Bundestag all’ulteriore invio di armi a Kiev.
L’ipotesi nucleare non è un bluff
Mentre il rischio del ricorso alle armi nucleari sta entrando, a poco a poco, nell’ordine possibile delle cose così come si vanno svolgendo sotto i nostri occhi, c’è chi mette in guardia dal considerare questa ipotesi un ennesimo bluff da parte del Presidente Putin.
Insieme agli appelli accorati di Papa Francesco, nei giorni scorsi è stata Angela Merkel a prendere la parola. In occasione dell’inaugurazione della Fondazione dedicata a Helmut Kohl, i giornalisti presenti hanno sollecitato un suo giudizio sugli eventi più recenti proprio in ragione della sua conoscenza diretta del Presidente Putin con cui negoziò, tra l’altro (e non va dimenticato), gli accordi di Minsk.
La signora Merkel, non si è fatta pregare e ha messo in guardia dal considerare le minacce del ricorso alle armi nucleari come un bluff, proprio per questo, invece di reagire con provocazioni uguali e contrarie, sarebbe il momento di riaprire canali di comunicazione con Mosca al fine di cercare spazi di manovra che potrebbero riaprirne altri
L’ingresso di Ucraina nella Nato non stempera ma acuisce le ostilità
A proposito della richiesta dell’Ucraina di ingresso nella NATO, il suo giudizio è stato netto: “Non si creda che serva a stemperare le ostilità, semmai le acuisce, perché è una risposta speculare a quella dell’annessione alla Russia delle nuove regioni, ratificata dalla Duma”.
“Aprire canali di comunicazione con la Russia non costituisce un segno di debolezza ma di saggezza politica”.
Quasi contemporaneamente il Bundestag respingeva a larghissima maggioranza (476 voti contro 175) una risoluzione presentata da CDU/CSU che chiedeva una immediata e significativa intensificazione delle forniture militari, in termini di quantità e qualità, delle armi a Kiev.
In Germania si discute, Italia superatlantista
Poco o niente di tutto ciò è comparso sulla stampa e sui media di casa nostra, mentre è evidente che in Germania è aperto un dibattito molto più ampio e serio delle pur importanti misure economiche decise dal Governo; dibattito che riguarda l’intera strategia europea ed il futuro della sicurezza in Europa in relazione alla Russia.
In Italia, qualsiasi posizione, seppur timida, che osi mettere in dubbio la scelta iper-atlantista imboccata, senza se e senza ma, dalla stragrande maggioranza della politica, viene tacciata di filoputinismo e sta generando un’autocensura e un conformismo asfissianti, tanto da rendere sospetto perfino l’uso della parola “pace”.
Non sottovalutare il rischio di una guerra atomica, prendere coraggio come al tempo delle grandi manifestazioni degli anni ’90 è un obiettivo possibile, cui dedicare ogni energia. Il CRS, dal canto suo, ha già proposto una soluzione di pace, sulla base di una “nuova Helsinki”.
È il tempo di riprendere grandi mobilitazioni in Italia e in Europa.
CRS: PD: Vera costituente o vie nuove – di Simone Oggionni
È impossibile essere sorpresi degli esiti del voto del 25 settembre. Si tratta di una sconfitta che viene da lontano.
Ha senza dubbio anche ragioni contingenti, prima fra tutte la divisione operata sul piano elettorale nel campo progressista e l’incapacità di costruire anche soltanto un’alleanza tecnica tra le forze democratiche. Fa amaramente sorridere il fatto che la scelta assunta prima del voto all’unanimità dagli organismi dirigenti del Partito Democratico sia stata nei giorni scorsi largamente disconosciuta, come se la responsabilità fosse del solo Enrico Letta. Lo ha scritto bene Marco Montelisciani su questo stesso sito.
Abbandonata la ragione sociale
Ma la sconfitta ha soprattutto ragioni che affondano le radici in quel processo di lunga durata, più volte analizzato, che ha visto il centro-sinistra italiano abbandonare progressivamente la propria ragione sociale, cioè l’insediamento nel mondo del lavoro e la capacità di rappresentare le pieghe della società più esposte ai venti della globalizzazione e delle crisi strutturali che hanno eroso in questi anni diritti e potere d’acquisto delle classi popolari. Parliamoci chiaro: prima ancora che il 19% del PD, è il 36,1% di astensione che si spiega così, con l’assenza di una proposta politica in grado di offrire una realistica prospettiva di riscatto e di partecipazione a vasti settori popolari impoveriti e delusi dalle politiche praticate al governo in questi anni.
Le prime analisi sui dati aggregati del voto di domenica scorsa ci confermano allora ciò che conosciamo da anni. Il Partito Democratico, e le forze a esso alleate, ancora una volta ottengono un voto più istruito, più protetto sul piano contrattuale, benestante, nei centri storici e nelle città più grandi. Confermano di non abitare nelle periferie, nella provincia profonda, soprattutto nel Mezzogiorno, e in particolare nell’area estesa del non lavoro e del lavoro precario, non soltanto giovanile e femminile.
Al M5S il 40% dei precari e il 59% dei disoccupati
A contendere l’egemonia della destra in questi settori popolari è stato il solo Movimento Cinque Stelle. Una rilevazione di Tecné indica che il Movimento di Conte ha raccolto il voto del 40% dei precari che si sono recati alle urne e il 59% di quello dei disoccupati (il PD rispettivamente il 10% e il 6%). Un altro lavoro di Ixè sul rapporto tra voto e reddito afferma che
tra chi ha condizioni economiche «appena accettabili» il PD è una forza del 15%, tra chi ha condizioni «inadeguate» crolla all’8%. Viceversa il Movimento Cinque Stelle tra i primi è al 20%, tra i secondi quasi al 30%.
Non vi è dubbio che il Movimento Cinque Stelle sia riuscito a offrire risposte di protezione alle paure e alle profonde incertezze di una parte importante del nostro Paese, alla vigilia di un tornante economico e politico (la destra al governo, la prospettiva della flat tax e dell’abolizione del reddito di cittadinanza, le inevitabili ricadute industriali e occupazionali della spirale inflazionistica che attanaglia il mercato, a partire da quello dei prezzi delle materie prime) che rischia di fare saltare definitivamente il patto sociale.
Occorre capire perché il PD non l’abbia saputo fare, malgrado un programma ben più avanzato di quanto non sia riuscito a comunicare. La mia impressione coincide con quella di Mario Tronti e ancora una volta interroga processi di più lunga durata: il PD ha mostrato dalla sua nascita di volere esercitare, per cultura politica ed esibito spirito di responsabilità nazionale, una funzione di supplenza nella gestione degli affari correnti della formazione economico-sociale per come è, senza più l’ambizione a trasformarla.
Sono queste evidenze a consigliare le mosse future. Sono queste le ragioni per le quali, come ha scritto Arturo Scotto, non ha alcun senso affrontare la fase di ricostruzione e di opposizione che si apre all’insegna di risposte ordinarie: il congresso classico; le primarie, offerte come strumento di apertura e inclusione ma in realtà semplice rappresentazione plastica dell’identità plebiscitaria del PD che, come ha scritto Nadia Urbinati, «coincide con il suo leader»; e infine l’auto-candidatura di aspiranti capi tutti interni all’orizzonte politico-culturale liberal-democratico che ha segnato la rotta di questi anni.
Ripensare lo sviluppo
Occorre invece fare ascoltare la voce di chi legge la sconfitta nella sua dimensione più profonda e per questo motivo di tutti coloro che sono disposti a mettere in campo, finalmente, una vera autonomia culturale, di pensiero e di idee. Per noi l’autonomia è l’autonomia politica del lavoro, l’ipotesi di una soggettività politica del lavoro che si faccia carico di ripensare lo sviluppo e il suo modello nell’epoca delle grandi transizioni, in primo luogo quella ecologica.
Senza una nuova collocazione identitaria e strategica non c’è futuro. E per nuova intendo antica. Occorre appunto riprendere il filo della storia spezzato strappo dopo strappo a partire dal 1989. Occorre ricostruire, in forme adeguate al tempo presente, una sinistra di popolo e di trasformazione. Una sinistra che abbia – e scusate se è poco, nel pieno di un conflitto che rischia di diventare nucleare – una visione del mondo autonoma dagli interessi degli Stati Uniti d’America, imperniata sul valore politico dello spazio europeo e sulla possibilità di un multipolarismo che assicuri stabilità ai rapporti internazionali e pace tra i popoli.
Anche su questo terreno il Movimento Cinque Stelle è apparso più coraggioso, più interessato alle ragioni della pace e della diplomazia, nonché alle ricadute economiche della guerra e della crisi energetica sui conti delle famiglie e delle imprese italiane.
Ma questa autonomia in quale processo va spesa?
Se vi fosse, occorrerebbe senza ombra di dubbio muoversi in una costituente rifondativa e rigenerativa, che coinvolgesse e superasse il Partito Democratico. Lo diciamo da tempo, anche quando ci si suggeriva di volare più basso e di essere realisti: negli ultimi tre anni, per esempio, qui, qui e ancora qui.
Positiva la proposta di Letta di un processo costituente
Da questo punto di vista la lettera di Enrico Letta sul percorso congressuale contiene una novità positiva, perché per la prima volta esplicita la possibilità di un processo costituente, ma anche molti rischi, giacché sembra volerne ipotecare, con l’enunciazione di tappe e contenuti, l’intero svolgimento. Si tratterà di verificare in queste settimane alcuni elementi decisivi, dal soggetto a cui si propone l’iscrizione (il PD o il percorso costituente di una forza politica nuova?) alla modificabilità di quelle «regole vigenti» (primarie comprese) cui Letta allude.
Se prevalessero – come non bisogna augurarsi – le spinte alla conservazione, occorrerebbe invece guardare a uno processo nuovo, con coraggio e determinazione. Sperimentando anche sul piano delle forme. Consegnando protagonismo alle realtà associative, culturali, politiche, civiche, sociali che praticano nei propri territori già da tempo la sinistra che non c’è sul piano nazionale. E sapendo che neppure il Movimento Cinque Stelle, per la natura e la conformazione sociale del suo voto, è in grado di rappresentare il mondo del lavoro nel suo complesso, a partire dalle lavoratrici e dai lavoratori industriali del Nord e del Centro-Nord, dal terziario impoverito, dalle professioni liberali e intellettuali e dunque da una parte di classi medie che, come ha scritto Maurizio Brotini recentemente, hanno salari dignitosi ma bloccati da trent’anni.
Sono queste le sfide decisive. Che attendono, forse, anche gruppi dirigenti rinnovati. Lo scrivo come tra parentesi, con un po’ di imbarazzo. Ma a indicare vie nuove non possono in linea generale essere gli ufficiali delle battaglie perdute.
La secessione della borghesia dai lavoratori

di Massimo Marnetto
Per ricominciare, il PD deve ammettere il suo grande errore: la secessione della borghesia dai lavoratori, culminata con il Jobs Act e l’abolizione dell’art. 18. La forza della Sinistra è stata sempre il riscatto degli ultimi, grazie alla mobilitazione del ceto medio riflessivo. O per dirla con Gramsci, l’unione di masse e intellettuali. Dove questi ultimi svolgevano il ruolo di avanguardie per sminare la società dalle ingiustizie e organizzare le rivendicazioni; insieme all’impegno di educare alla politica chi aveva meno istruzione con parole semplici. Poi questo lavoro capillare – nelle sezioni e nelle case del popolo – si è interrotto. E l’intellettuale è diventato un radical-chic che si parla addosso.
Si può ricreare l’alleanza borghesia-lavoratori? Certo, ma solo ripristinando il ”contatto tra classi”. Andando nelle periferie a parlare di giustizia sociale usando temi concreti (carenza di case popolari, di medicina di base, ecc.) e dedicando incontri ai giovani a rischio di abbandono scolastico, aiutarli nei compiti e pure a fare l’Erasmus. Insomma, riguadagnando credibilità con il supporto, e ascolto con la chiarezza. Perché gli ultimi – per tornare a votare a sinistra – devono fidarsi per quello che fa e capire quello che dice.
America elettorale, vigilia di Mid Term, cattiverie incrociate oltre Biden e Trump
di Piero Orteca su Remocontro
Le prossime elezioni americane di Mid Term, a novembre, per rinnovare tutta la Camera (435 seggi) e un terzo del Senato (35 seggi), saranno una resa dei conti. Da mesi queste votazioni si vanno caricando di significati extrapolitici, che rischiano di mettere in crisi alcuni dei delicati equilibri istituzionali del Paese più importante del mondo.
Usa, se i Repubblicani conquisteranno il Congresso hanno intenzione di mettere Biden sotto inchiesta?

Congresso Usa repubblicano, bersaglio Biden
Repubblicani e Democratici si stanno dando battaglia, senza esclusione di colpi, come se il controllo del Congresso fosse ormai diventato una questione di vita o di morte. E allora, diciamo che in un certo senso lo è. Abbiamo scelto l’analisi che a noi è sembrata più onesta, quella del Washington Post, che pur essendo “il più progressista dei giornali progressisti” americani, mette in guardia il Partito democratico. Cosa potrebbe capitare, concretamente, se i Repubblicani vincessero le elezioni di Medio Termine? Amber Phillips parte dalla eventuale riconquista della Camera. Prima di tutto inchieste. Pesanti.
Tiro al bersaglio
In primo luogo, verrebbe preso di mira (e messo in qualche modo sotto indagine) il “Comitato 6 gennaio”, quello che si occupa dell’assalto a Capitol Hill. Ci sono poi le accuse di frode fiscale contro Hunter Biden, il figlio del Presidente, per i suoi intensi commerci con l’estero. Joe Biden ha sempre sostenuto di essere all’oscuro di tutto. Tutti i Repubblicani (ma anche qualche democratico) vorrebbero poi una commissione d’inchiesta sulla fuga dall’Afghanistan. Nel mirino anche la politica “di manica larga” di Biden per quanto riguarda gli ingressi illegali dal confine sud. Il Washington Post arriva, addirittura, a ipotizzare una possibile richiesta di impeachment.
Senato, minaccia paralisi
Al Senato gli scenari sono lo stesso complicati, se la Casa Bianca dovesse avercelo contro. Il Presidente avrebbe costanti difficoltà a farsi finanziare le leggi di spesa e i tempi di approvazione dei conti si allungherebbero. Inoltre Biden avrebbe serie difficoltà a nominare giudici federali di sua fiducia, che potrebbero essere sistematicamente bocciati dal Senato. Insomma, la riflessione che si può fare è che negli Stati Uniti, i tizzoni ardenti covavano sotto la cenere e che il clima politico era avvelenato.
Eredità Trump, America lacerata
Dalla Presidenza Trump in poi questo Paese ha perso la bussola, e ora la più importante democrazia del mondo arranca, mandando avanti Tribunali e Corti di ogni colore e dimensione, a fare da “buttafuori” per le risse che si aprono quasi quotidianamente in Campidoglio. L’America è una nazione spaccata, anzi, lacerata. Tra grandi metropoli e sterminate campagne dimenticate dal Signore, tra yuppies rampanti e legioni di “homeless”, tra anglo-sassoni “della prima ora” e milioni di “chicanos”, in cerca del loro spicchio di paradiso. L’America è spaccata anche tra chi dovrebbe rappresentarla, tra quei partiti politici che erano modello di un sistema bipolare che ha fatto scuola. E che oggi non riesce più, invece, a dare voce alle domande di una popolazione sempre più disincantata.
Dal confronto politico allo scontro
La dialettica tra Democratici e Repubblicani ha ormai toccato toni esasperati e dopo la burrascosa transizione presidenziale, da Trump a Biden, come abbiamo visto, il confronto politico è diventato una guerra. Tanto che molti commentatori vedono le prossime elezioni di Mid Term, come un punto di svolta. Non si tratterà, insomma, solo di un referendum sull’operato del Presidente, ma di un’eccellente opportunità per “affondarlo” e per restituire ai Democratici pan per focaccia. In che senso?
Il tarlo del complottismo
Beh, tra i Repubblicani (non tutti, è chiaro) si è fatto strada, in qualche misura, il tarlo del “complottismo”. L’assalto a Capitol s’ Hill (e il processo a Trump) e poi la spettacolare perquisizione di Mar-a-Lago sarebbero “colpi bassi”, che in un certo senso vanno vendicati. Nessun affetto particolare nei confronti di Trump, intendiamoci, perché a più della metà del Partito repubblicano sta sullo stomaco.
Trump da usare, ma non troppo
La verità è che il Grand Old Party pensa che difendere l’ex Presidente sia una necessità, per giocarsi una nuova partita nel 2024. Anche se non con lui (Desantis?). Ma per fare tutto questo, prima, devono demolire Biden. E sperare che Trump esca definitivamente di scena. Se no la pezza sarebbe peggiore del buco.
- La differenzaÈ infatti enorme la differenza tra la guerra e la pace. E la tragedia è proprio questa, che la guerra si concede una pausa per riprendere ancora più incondizionata di prima. E ciò perché questa non è neanche degna di essere chiamata guerra, perché le guerre si fanno per ottenere qualcosa, che è la posta in gioco della guerra. Invece questa è una guerra che ha per fine la negazione reciproca dell’esistenza dell’altro. E attraverso un rovesciamento di ciò, nella costruzione di una umana convivenza tra i membri del popolo palestinese e i cittadini ebrei dello Stato di Israele, che può istituirsi, non una tregua, ma la pace
- ScendereMi tocca difendere il Ministro Lollobrigida, perché la sua richiesta di fermata del treno in ritardo, per proseguire in auto, era motivata da un interesse pubblico istituzionale, prevalente su quello privato degli altri passeggeri. Ovvero la sua presenza come Ministro – cioè a nome dello Stato – a Caivano, per inaugurare un parco ad alto valore simbolico, come riscatto di un territorio abbandonato al degrado e alla criminalità. (Marnetto)
- La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con IsraeleLa feroce rappresaglia di Israele nella striscia di Gaza, accompagnata da un’ aggressiva reazione dei coloni nella Giordania occupata, rischia ora di compromettere, a vantaggio di Hamas, anche il fragile compromesso con i paesi arabi moderati, avviato col “patto di Abramo” e la compiaciuta assistenza degli Stati uniti. La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele.I Paesi arabi moderati, gli alleati di sempre, il lato debole della geopolitica americana prigioniera di Netanyahu in Medio Oriente. Prima tra tutti la Giordania. Re Abdullah II di fronte alla devastante reazione israeliana ai massacri di Hamas, sta per rivedere la trentennale ‘pacificazione’ con Tel Aviv, ma anche le relazioni privilegiate con Washington
- Professione reporter dopo il 7 ottobre. I dubbi di Eric Salerno (e non soltanto)Come è stata l’informazione dal 7 ottobre a oggi, ossia da quando i palestinesi –‘militanti di Hamas’, ‘terroristi’, ‘nazisti’, ‘criminali di guerra’, ‘partigiani’, ‘combattenti per la libertà’ o altri termini scelti da chi giudicava e raccontava – hanno dato l’assalto a Israele? Cosa sono oggi i giornalisti o fotografi ‘embedded’? Cosa rappresentano i palestinesi arabi che lavorano per i grandi media; giovani o meno che raccontano da Gaza? E la stampa israeliana? Quella italiana?
- PazzoGuardo l’Argentina e penso all’Italia. Nella nazione del Sud America la povertà si è talmente diffusa da risucchiare nell’angoscia metà della popolazione. I poveri prima smettono di votare (astensione), dopo scelgono il ”pazzo” più distruttivo del sistema che li ha affamati. E questo processo è più rapido se c’è l’elezione diretta del presidente (o del premier). (Marnetto)