Reader’s – 1 aprile 2022

Vogliono essere anche loro ”ucrainizzati”, ci scrive oggi Massimo Marnetto, e, spiega: “lo chiedono i migranti fuggiti dalle altre guerre – come quelle in Siria, Libia, Afghanistan, Iraq e in altri paesi – scesi in piazza per rivendicare lo stesso trattamento di accoglienza concesso dalla UE agli esuli dell’Ucraina. Cose pratiche, come il permesso di soggiorno svincolato da un contratto di lavoro o dalla residenza e fine della burocrazia eterna nelle questure. Ma anche il riconoscimento della cittadinanza ai figli nati in Italia e l’abolizione dei centri di detenzione.

“Che sia in atto un’empatia selettiva non è un mistero, commenta. Ed è anche in qualche modo comprensibile, visto che la diaspora degli ucraini è composta quasi prevalentemente da madri, bambini e anziani.

“Ma proprio questa crisi deve far ripensare l’approccio nazionale ed europeo alle migrazioni. Ad iniziare dal trattato di Dublino sulla mancata redistribuzione dei migranti. Ieri, difeso dagli stati del nord, perché i flussi venivano da sud. Oggi, necessario a tutti, per definire finalmente un’equa accoglienza.”

In questo nuovo approccio, è chiaro che occorre porre diversamente anche il problema della ripartizione degli investimenti per gli armamenti e quelli per l’accoglienza dei rifugiati. In Europa prima ancora che negli Stati Uniti e su questo c’è ancora tanto da fare. “America con più di 800miliardi in armamenti per quale guerra? Titolava stamani Piero Orteca per Remocontro. Il più grande livello di spesa militare della storia degli Stati Uniti. “Investimento complessivo di 813 miliardi, 60 in più quest’anno. All’Ucraina vanno le briciole. La Russia molto più povera, spende 61 miliardi di dollari, 13 volte in meno. E per l’America il nemico numero uno resta la Cina”.

Sceriffi del pianeta                          

“Gli Stati Uniti sono una grande democrazia, non c’è dubbio. Ma sono anche un Paese che resta tutto preso dal suo ruolo un po’ troppo “unipolare”, in certi momenti della storia. Detto molto più chiaramente, interpretano la geopolitica in modo, a volte, “asimmetrico”. Garantiscono loro la “sicurezza” del pianeta, anche se “a macchia di leopardo”. Nel senso che intervengono a seconda degli interessi in gioco. Che possono essere leciti e moralmente più o meno condivisibili, ma sempre interessi sono. E non è detto che lo siano, per forza, di tutti. Non ci riferiamo certo solo all’Ucraina, l’ultimo anello, il più debole e sanguinoso, di una catena di errori strategici che comincia da lontano.

Impotenza Ucraina

“Vogliamo però riflettere su un fatto: una superpotenza che spende per la difesa 10 volte più della Russia, perché non riesce a fermare l’agonia di Kiev? O, meglio: come mai non si è preoccupata, seriamente, di ciò che poteva succedere, dopo l’annessione della Crimea nel 2014, per prevenire la mattanza di oggi? Domande legittime, che un Occidente, legatosi mani e piedi al suo Paese-leader, forse dovrebbe porsi. Anche per capire fino a che punto Washington sia disposta a rischiare per tutelare, sia detto in senso più generale, gli “interessi” dell’Europa. Che non devono per forza toccare vette altissime, come quelle della libertà, dell’indipendenza o della democrazia, ma che possono riguardare anche aspetti più immediati e che contano, come l’economia”.

Biden alla Reagan

Rimangiandosi parte delle promesse sui programmi sociali fatte in campagna elettorale, il Presidente Biden ha chiesto ora al Congresso di autorizzare il più grande livello di spesa militare della storia degli Stati Uniti. Qualche tassa verrà aumentata solo ai super-ricchi, ma il deficit sarà tagliato drasticamente, con una manovra squisitamente monetarista, che non ha proprio niente di “progressismo”. Il commento al vetriolo di qualche analista, è che “sembra il bilancio di Reagan”. Ma mentre

Nuova ‘Bidenomics’

Un po’ meno dell’uno per cento, circa 682 milioni di dollari, sono destinati per armi e aiuti economici all’Ucraina. Il quotidiano finanziario Wall Street Journal rivela, citando U.S. officials”, che la preoccupazione strategica principale è rappresentata dalla Cina e dalla sua sfida nell’Indo-Pacifico. In particolare, al Pentagono, si temono le devastanti potenzialità del suo nuovo missile balistico ipersonico “DF17”.

E se l’enorme somma che Biden vuole destinare alle spese militari ha provocato la reazione anche di Bernie Sanders, la vera anima progressista dell’Americana, “critiche feroci anche dai Repubblicani, ma per motivi diametralmente opposti. Mitch McConnell, leader del partito al Senato, ha rilevato che il bilancio per la difesa “non tiene conto nemmeno del tasso d’inflazione che ormai è all’8%”. Le polemiche, insomma, infuriano. Mentre Biden, invece, non stacca più l’occhio dai sondaggi, che lo danno perdente certo”.


Contro “la retorica dei valori e dei principi astratti”

,protesta giustamente anche il nostro collega Gilberto Squizzato: “Invece di chiamarla “Marcia della pace” (chi mai si direbbe contrario alla pace?) riducendola a una petizione di principio annuale perchè non chiamarla “Marcia per la pace e per il disarmo progressivo e multilaterale”?

Impegnando associazioni, enti, comunità a fare politica 365 giorni l’anno non solo per creare una generica “cultura della pace” ma per un obiettivo difficile, faticoso ma concreto, obbligato alla concretezza del lavoro politico? Siamo sazi di bandiere della pace, ci servono operatori della pace. E la pace si fa con la politica, nazionale e internazionale.

  • La differenza
    È infatti enorme la differenza tra la guerra e la pace. E la tragedia è proprio questa, che la guerra si concede una pausa per riprendere ancora più incondizionata di prima. E ciò perché questa non è neanche degna di essere chiamata guerra, perché le guerre si fanno per ottenere qualcosa, che è la posta in gioco della guerra. Invece questa è una guerra che ha per fine la negazione reciproca dell’esistenza dell’altro. E attraverso un rovesciamento di ciò, nella costruzione di una umana convivenza tra i membri del popolo palestinese e i cittadini ebrei dello Stato di Israele, che può istituirsi, non una tregua, ma la pace
  • Scendere
    Mi tocca difendere il Ministro Lollobrigida, perché la sua richiesta di fermata del treno in ritardo, per proseguire in auto, era motivata da un interesse pubblico istituzionale, prevalente su quello privato degli altri passeggeri. Ovvero la sua presenza come Ministro – cioè a nome dello Stato – a Caivano, per inaugurare un parco ad alto valore simbolico, come riscatto di un territorio abbandonato al degrado e alla criminalità. (Marnetto)
  • La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele
    La feroce rappresaglia di Israele nella striscia di Gaza, accompagnata da un’ aggressiva reazione dei coloni nella Giordania occupata, rischia ora di compromettere, a vantaggio di Hamas, anche il fragile compromesso con i paesi arabi moderati, avviato col “patto di Abramo” e la compiaciuta assistenza degli Stati uniti. La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele.I Paesi arabi moderati, gli alleati di sempre, il lato debole della geopolitica americana prigioniera di Netanyahu in Medio Oriente. Prima tra tutti la Giordania. Re Abdullah II di fronte alla devastante reazione israeliana ai massacri di Hamas, sta per rivedere la trentennale ‘pacificazione’ con Tel Aviv, ma anche le relazioni privilegiate con Washington
  • Professione reporter dopo il 7 ottobre. I dubbi di Eric Salerno (e non soltanto)
    Come è stata l’informazione dal 7 ottobre a oggi, ossia da quando i palestinesi –‘militanti di Hamas’, ‘terroristi’, ‘nazisti’, ‘criminali di guerra’, ‘partigiani’, ‘combattenti per la libertà’ o altri termini scelti da chi giudicava e raccontava – hanno dato l’assalto a Israele? Cosa sono oggi i giornalisti o fotografi ‘embedded’? Cosa rappresentano i palestinesi arabi che lavorano per i grandi media; giovani o meno che raccontano da Gaza? E la stampa israeliana? Quella italiana?
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