Reader’s – 5 maggio 2022 (rassegna web)

I dubbi dei giornali americani sulla strategia occidentale

Ancora una volta, come è stato scritto molte volte, vale la pena di ripetere che i crimini di guerra non potranno restare impuniti, sempre che le inchieste indipendenti dell’Onu e del Tribunale internazionale dell’Aja giungano a conclusioni rapide e prove certe. Ma ripetuto questo, scrive Massimo Nava su Corsera e su Remocontro, “ è doveroso, prima che giusto, anche chiedersi dove stia portando l’escalation dello scontro. Tanto più che le questioni aperte sono ormai uscite dal perimetro militare e dallo scenario ucraino.

Contro Putin e Russia via Ucraina

Alla fine di marzo, il presidente Biden ha detto in Polonia che Putin «non può rimanere al potere». Alla fine di aprile, il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha detto: «Vogliamo vedere la Russia indebolita al punto che non possa più fare le cose che ha fatto invadendo l’Ucraina». Biden, ricorda il Wsj, ha più che raddoppiato il finanziamento alla guerra. Giovedì ha chiesto 33 miliardi di dollari per forniture di armi e assistenza a lungo termine a Kiev, dopo che un finanziamento iniziale di 13,6 miliardi di dollari per i primi due mesi di guerra era quasi esaurito. Non è precisato se si tratti di regali o di crediti. In ogni caso, la dipendenza dell’Ucraina dagli Usa sarà cementata per generazioni.

NYT, strategia Usa pericolosa

Il New York Times è più esplicito già nel titolo : «La pericolosa strategia di confronto degli Stati Uniti con la Russia». “A parole e nei fatti, Washington lavora sempre più apertamente per colpire l’esercito russo e indebolire il Cremlino», esordisce. «La battaglia per il controllo dell’Ucraina si sta trasformando in un confronto diretto tra Washington e Mosca. Eppure il presidente Biden ha iniziato la guerra affermando di non volerla trasformare in uno scontro tra Russia e Stati Uniti. Ha insistito nel mantenere l’esercito americano fuori dal campo di battaglia, e ha resistito alle richieste di una no-fly zone sull’Ucraina che minacciava di spingere americani e russi in un confronto diretto.

“Da allora, continua il NYT citato da Nava, man mano che le atrocità e i crimini di guerra commessi dalla Russia e la necessità per l’Ucraina di acquisire armi pesanti sono diventati sempre più innegabili, le linee si sono offuscate e la retorica si è fatta più aspra. Ma a più lungo termine, l’esibizione di un tale obiettivo strategico da parte dell’America rischia di rafforzare Vladimir Putin nella sua convinzione che, con questa guerra, l’ambizione dell’Occidente è in realtà di strangolare il potere e destabilizzare lo Stato russo».

Armi segrete e avvertimenti

Il secondo pericolo segnalato dal Nyt è che «Putin consideri le sue forze militari convenzionali limitate, si risolva a intensificare gli attacchi informatici contro le infrastrutture occidentali e a usare armi chimiche o il suo arsenale nucleare tattico, una possibilità che era inconcepibile otto settimane fa ma che ora viene regolarmente menzionata». «Vari scenari sono previsti dalle autorità americane, in particolare la possibilità che Putin, esasperato dalla mancanza di progressi sul terreno, finisca per inviare una bomba “dimostrativa” nel Mar Nero o in una zona disabitata, alla maniera di un colpo di avvertimento contro l’Occidente».

Le armi russe

«I settori della difesa e dell’alta tecnologia russi — rivela poi il Nyt — sono stati tagliati fuori da alcune linee di rifornimento cruciali, come ha detto il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan un mese fa. Rimane difficile valutare l’impatto concreto sulla produzione di armi, come ad esempio se i russi possono trovare fornitori alternativi. All’interno dell’amministrazione Biden, confidano che la politica delle sanzioni è stata progettata per essere gradualmente inasprita.

“A poco a poco, mancheranno i capitali per investire in nuove attrezzature, le consegne di chip diventeranno più scarse, le entrate di gas e petrolio diminuiranno, e la pressione diventerà sempre più evidente. Anche i beni di consumo saranno probabilmente colpiti a lungo termine, e i consumatori russi avranno difficoltà a permettersi gli iPhone e gli smartphone Android da cui sono dipendenti come gli occidentali”.

I dubbi del New York Times

Il giornale non sembra però credere in questo scenario: «Resta da vedere se la nuova strategia può funzionare. Ogni presidente dopo Harry Truman ha cercato di soffocare la Corea del Nord con sanzioni drastiche, eppure l’arsenale nucleare della Corea del Nord non è mai stato così esteso come oggi».

In guerra da trent’anni

Siamo in guerra da trent’anni. Una guerra dove non si spara, ma le battaglie e i morti si fanno con la speculazione, i dazi doganali, gli oligopoli, i “cartelli” e una concorrenza commerciale selvaggia. Questo conflitto, mascherato da “progresso”, si chiama globalizzazione. E non si sceglie. Si subisce. Quando le cose vanno bene, ha i suoi lati belli, ma agli emarginati arrivano comunque le briciole. Se, però, il pallino gira al contrario, la crisi si spalma su tutto il pianeta, che sprofonda, devastato da nuove incertezze e da antiche povertà. A questo scenario da incubo, si è ora sovrapposta l’invasione russa dell’Ucraina. Una sanguinosa “miscalculation” di Putin, che pensava di entrare in carrozza a Kiev, con l’esercito ucraino in fuga e solo qualche protesta di comodo in Occidente.

L’Ucraina armata e resistente

E invece è andata al contrario. Zelensky e i suoi uomini stanno facendo passare un brutto quarto d’ora all’armata russa, mentre Usa ed Europa dalla “neutralità qualificata” sono quasi passati alla “cobelligeranza”. Tutti sanno, però, che Mosca ha gli arsenali stipati di armi nucleari, per cui nessun occidentale si sognerebbe di intervenire direttamente in Ucraina.

Fin dall’inizio, la strategia scelta è stata quella di imporre severissime sanzioni economiche. Che però, finora, non hanno toccato il “cuore” delle esportazioni russe, cioè gas, carbone, petrolio e prodotti raffinati, perché si teme l’effetto boomerang sul sistema produttivo e sulla qualità della vita in Europa….Il paradosso è che da un lato si moltiplica l’invio di armi a Kiev e dall’altro si restituisce alla Russia, dalla finestra, quello che le si toglie attraverso la porta.

Di questo passo, la guerra potrebbe durare cent’anni, se non succede qualcosa prima. Beh, per ora, quello che è successo era pronosticabile.

Deciso di non decidere

I rappresentanti dei “27” riunitisi per esaminare il piano Von der Leyen sulle sanzioni energetiche, hanno fatto un buco nell’acqua. In pratica, si è deciso di non decidere. Fiutando il mare grosso, la Presidente UE aveva addirittura concesso una moratoria a Slovacchia e Ungheria, fino al termine del 2023. Entrambi i Paesi non hanno sbocco sul mare e il loro import di petrolio (e gas) dipende principalmente dalle condotte. Insomma, ci vorrebbe tempo per adeguare la logistica alla buona volontà (ammesso che ci sia). Ai due si sono aggiunte la Bulgaria e la Repubblica Ceca. Sofia chiede lo stesso trattamento di favore, “perché dipendente al 90% dal petrolio russo”. Praga, invece, cerca una “sponda” in Germania e oggi il premier Peter Fiala vedrà Scholz, a cui chiederà di avere una transizione più lunga. O anche lui si metterà di traverso. Come ha già fatto Orban, il quale ha comunicato che l’Ungheria eserciterà il diritto di veto, nel caso di sanzioni applicate a petrolio e gas russi.

Il ‘cattivo Orban’ salva tutti

Così facendo, ha sollevato qualche indignazione (di facciata), ma contemporaneamente ha tolto le castagne dal fuoco a diversi altri Paesi, più allineati alle posizioni ufficiali dell’Alleanza atlantica. Risentita la reazione degli ucraini, il cui Ministro degli Esteri, Dmytro Kuleba, ha detto che “i Paesi dell’UE che continueranno a opporsi all’embargo sul petrolio russo, sono complici dei crimini di guerra commessi in territorio ucraino”. La verità, comunque, è che l’Europa si muove in ordine sparso, cercando, alla chetichella, di salvaguardare i propri interessi nazionali, senza fare irritare troppo l’ombroso alleato americano.

Triangolazioni di gas e rubli

La Grecia, per esempio, ha contestato (e contesterà) la direttiva che impedisce il trasporto navale di merci russe.
La Polonia non ha voluto pagare il gas russo in rubli, ma ora è costretta a prenderlo dalla Germania (gas russo di “seconda mano”) e lo paga in euro. Mentre Berlino, con una partita di giro, versa euro in una stanza della banca e fa uscire rubli dall’altro lato, per i russi.
Il blocco del gas? È come l’abominevole uomo delle nevi: tutti ne parlano, ma nessuno l’ha mai visto.


Una striscia per Damilano

Apprendo dal sito di Articolo 22 che “Una striscia quotidiana di informazione curata e condotta da Marco Damilano, già direttore dell’Espresso e commentatore in numerosi programmi televisivi, andrà in onda da settembre su Rai3. A dare la notizia è la tv del servizio pubblico, che anticipa anche l’orario di inizio (comincerà alle 20.35) e la durata della trasmissione (dieci minuti).

Una scelta, quella dei vertici Rai, che suscita però le perplessità dei rappresentanti dei giornalisti del servizio pubblico. «Ancora una volta l’azienda ricorre ad un giornalista esterno per l’informazione. L’arrivo di Marco Damilano è soltanto l’ultimo caso», commenta l’Esecutivo Usigrai.

«Come si è giunti alla scelta di Damilano? Il direttore Mario Orfeo, prima di ricorrere a un esterno, ha valutato i curricula degli interni?», chiedono i rappresentanti sindacali, che rimarcano: «In un momento in cui l’ad Carlo Fuortes chiede sacrifici agli interni, ci sembra paradossale che all’improvviso ci siano i soldi per pagare un giornalista esterno, quindi con un aggravio di costi per l’azienda».

Stupore in merito alla notizia della nuova striscia informativa la esprime anche il Cdr del Tg2, «perché dall’azienda – si legge in una nota – ci aspettiamo la difesa e la valorizzazione del nostro prodotto, che è risultato dello sforzo dell’intera redazione, non una “concorrenza interna” che riteniamo fuori luogo e punitiva».

Inoltre, incalza l’Usigrai, «non si comprende la logica di sovrapposizione di palinsesto della striscia di informazione prevista alle 20.35 su Raitre, con il Tg2 che va in onda allo stesso orario. La nuova organizzazione per generi così parte male e invece di migliorare l’offerta apre la strada ad una concorrenza interna che non giova al prodotto di informazione della Rai. Freelance, giornalisti esterni, conduttori esterni, non è questa la strada del servizio pubblico».

Da qui la richiesta all’ad Carlo Fuortes e al direttore Mario Orfeo «di ripensare l’orario di messa in onda della nuova striscia informativa, tenendo nella dovuta considerazione gli orari di trasmissione dei prodotti del Tg2 e il lavoro di tutto il personale che ne permette la realizzazione».


  • La differenza
    È infatti enorme la differenza tra la guerra e la pace. E la tragedia è proprio questa, che la guerra si concede una pausa per riprendere ancora più incondizionata di prima. E ciò perché questa non è neanche degna di essere chiamata guerra, perché le guerre si fanno per ottenere qualcosa, che è la posta in gioco della guerra. Invece questa è una guerra che ha per fine la negazione reciproca dell’esistenza dell’altro. E attraverso un rovesciamento di ciò, nella costruzione di una umana convivenza tra i membri del popolo palestinese e i cittadini ebrei dello Stato di Israele, che può istituirsi, non una tregua, ma la pace
  • Scendere
    Mi tocca difendere il Ministro Lollobrigida, perché la sua richiesta di fermata del treno in ritardo, per proseguire in auto, era motivata da un interesse pubblico istituzionale, prevalente su quello privato degli altri passeggeri. Ovvero la sua presenza come Ministro – cioè a nome dello Stato – a Caivano, per inaugurare un parco ad alto valore simbolico, come riscatto di un territorio abbandonato al degrado e alla criminalità. (Marnetto)
  • La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele
    La feroce rappresaglia di Israele nella striscia di Gaza, accompagnata da un’ aggressiva reazione dei coloni nella Giordania occupata, rischia ora di compromettere, a vantaggio di Hamas, anche il fragile compromesso con i paesi arabi moderati, avviato col “patto di Abramo” e la compiaciuta assistenza degli Stati uniti. La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele.I Paesi arabi moderati, gli alleati di sempre, il lato debole della geopolitica americana prigioniera di Netanyahu in Medio Oriente. Prima tra tutti la Giordania. Re Abdullah II di fronte alla devastante reazione israeliana ai massacri di Hamas, sta per rivedere la trentennale ‘pacificazione’ con Tel Aviv, ma anche le relazioni privilegiate con Washington
  • Professione reporter dopo il 7 ottobre. I dubbi di Eric Salerno (e non soltanto)
    Come è stata l’informazione dal 7 ottobre a oggi, ossia da quando i palestinesi –‘militanti di Hamas’, ‘terroristi’, ‘nazisti’, ‘criminali di guerra’, ‘partigiani’, ‘combattenti per la libertà’ o altri termini scelti da chi giudicava e raccontava – hanno dato l’assalto a Israele? Cosa sono oggi i giornalisti o fotografi ‘embedded’? Cosa rappresentano i palestinesi arabi che lavorano per i grandi media; giovani o meno che raccontano da Gaza? E la stampa israeliana? Quella italiana?
  • Pazzo
    Guardo l’Argentina e penso all’Italia. Nella nazione del Sud America la povertà si è talmente diffusa da risucchiare nell’angoscia metà della popolazione. I poveri prima smettono di votare (astensione), dopo scelgono il ”pazzo” più distruttivo del sistema che li ha affamati.  E questo processo è più rapido se c’è l’elezione diretta del presidente (o del premier). (Marnetto)
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