L’atlantismo acritico del segretario del PD, tanto “fervente” da considerare incompatibile perfino un’accordo elettorale con i Cinquestelle, è risultato determinante per la vittoria del centro destra. Che ci sia stato non un semplice sbaglio ma un errore calcolato è la tesi sostenuta da Marco Montelisciani nell’articolo che vi propongo dall’ ultimo numero della rivista del Centro per la Riforma dello Stato. Dove si prova a spiegare anche come e perché il voto popolare per Conte “ha sconfitto la strategia del voto utile e la finzione del bipolarismo”. Per cui oggi “la sinistra è davanti all’ennesimo bivio”.
L’harakiri del PD, un errore calcolato
“A portare per la prima volta alla guida di una grande democrazia dell’Europa occidentale un partito dichiaratamente erede dell’esperienza storica del fascismo è solo in parte l’avanzata elettorale di Fratelli d’Italia – scrive Montelisciani. – Sia sulla base delle impressioni tratte da un primo approccio ai numeri di queste elezioni sia sulla base dell’analisi dei flussi elaborata dall’Istituto Cattaneo, infatti, si può dire che la forza politica guidata da Giorgia Meloni è riuscita soprattutto a egemonizzare il campo del fu centro-destra, che però complessivamente – ottenendo come coalizione il 43,8% dei consensi espressi, con un tasso di partecipazione al voto del 63,9% e in assenza di competitor alla sua destra – resta ben al di sotto dei suoi migliori risultati. “
Regalati a FdI la gran parte dei collegi uninominali
“La destra ha vinto queste elezioni per decisione unanime del gruppo dirigente nazionale del maggiore partito del centro-sinistra, formalizzata nella direzione nazionale del 26 luglio scorso. La decisione del Partito Democratico di chiudere a ogni possibilità di accordo con il Movimento 5 Stelle e con Giuseppe Conte ha oggettivamente reso non contendibile la gran parte dei collegi uninominali, regalandoli alla coalizione guidata da Giorgia Meloni, anche laddove la destra era nettamente minoritaria nei consensi espressi dagli elettori.
Una scelta tanto radicale quanto apparentemente irrazionale
La scelta compiuta dal PD è tanto radicale quanto apparentemente irrazionale. Eppure la radicalità della scelta e delle sue prevedibili conseguenze impongono di cercare, se non una razionalità, almeno delle ragioni. La campagna elettorale si è già incaricata di smontare per manifesta insostenibilità logica e fattuale la tesi ufficiale del Nazareno secondo la quale la rottura con i Cinquestelle sarebbe divenuta inevitabile in seguito alla loro mancata partecipazione a un voto di fiducia in Parlamento, che avrebbe determinato quella sorta di “lesa maestà nei confronti di Draghi” di cui efficacemente parla Ida Dominijanni in un articolo pubblicato su questo sito.
È molto probabile che il PD, già prima delle vicende che hanno portato alle dimissioni di Draghi, avesse già preso la decisione di rompere con Conte.
Altrimenti che senso avrebbe avuto offrire una sponda politica alla scissione di Luigi Di Maio? E perché inserire nel “decreto aiuti” la norma sulla costruzione dell’inceneritore a Roma, che, comunque la si pensi nel merito, non può che essere considerata una provocazione deliberata nei confronti del Movimento 5 Stelle? E perché, poi, accettare di stringere un accordo con chi, come Sinistra Italiana, del Governo Draghi era stato aperto oppositore? Resta difficile pensare che quella del gruppo dirigente nazionale del PD sia stata solo una clamorosa manifestazione di imperizia tattica o strategica”.
L’elmetto della NATO
“Enrico Letta e il PD – prosegue l’analisi – non hanno esitato un minuto a indossare l’elmetto della NATO, rinnegando decenni di tradizione cattolico-democratica e socialcomunista prima, ulivista poi…. Tradizione sepolta, nel volgere di poche ore, dalla professione di “atlantismo”. Lo stesso termine che aveva utilizzato Mario Draghi chiedendo la fiducia del Parlamento per dare vita a un governo che non si limitava a ribadire, come da cerimoniale, la “collocazione dell’Italia nell’Alleanza atlantica”, ma che si definiva direttamente “atlantista”.
Era il febbraio 2021, un mese dopo l’insediamento di un nuovo inquilino alla Casa Bianca e, si parva licet, poche settimane prima dell’insediamento di un nuovo segretario al Nazareno in seguito alle dimissioni, ancora oggi rimaste politicamente inspiegate, di Nicola Zingaretti. Catena di eventi che, su scale diverse, segna un passaggio di fase”.
Il tentativo di rimuovere l’anomalia M5S e l’accordo sul proporzionale
L’esperienza del Governo “dei migliori” è stata tante cose. Tra queste, anche il tentativo di rimuovere l’anomalia rappresentata dal Movimento 5 Stelle, dal suo nuovo capo Giuseppe Conte, dal fastidioso odore di popolo che continuano a portarsi dietro, da posizioni non sufficientemente allineate sui temi della pace, della guerra, del rapporto tra Europa e NATO.
Mentre dal Governo, con il controcanto di una stampa conformista, si costringevano i Cinquestelle a una postura meramente difensiva dei provvedimenti simbolo della loro irruzione a palazzo Chigi dopo il trionfo del 2018, la nuova segreteria del PD provvedeva a smantellare le condizioni in base alle quali era stata fino ad allora costruita la possibilità di una collaborazione strategica con il Movimento.
Su tutte, l’accordo sulla riforma in senso proporzionale della legge elettorale, che Enrico Letta si è premurato quasi subito di rinnegare. Garantendo, seduto accanto a Giorgia Meloni sul palco della festa nazionale di Fratelli d’Italia, che non avrebbe mai messo in discussione il sistema maggioritario. Sistema in virtù del quale, pure in assenza di una reale avanzata in termini di consensi nel paese, la destra può oggi godere di una maggioranza più che solida in parlamento, sfiorando il 60% in entrambe le Camere. Tutto prevedibile e previsto.
Non previsto – continua Milisciani avviandosi alla conclusione – “il voto di popolo al Movimento 5 Stelle e a Giuseppe Conte” così come la sconfitta della “strategia del voto utile e della inesistente contrapposizione bipolare che il PD ha artificiosamente cercato di imporre a una campagna elettorale“.
L’ennesimo bivio
“Il Movimento 5 Stelle e Giuseppe Conte hanno il merito di avere impedito che quel popolo perduto, irrecuperabile da un centro-sinistra strutturalmente e culturalmente inadeguato a rappresentarlo, ingrossasse le fila o di un astensionismo già su livelli drammatici o di una destra regressiva ma evidentemente più credibile di chi le ha spianato la strada verso il governo”. Per mettersi “alla guida di un’opposizione che tenga alte le parole d’ordine della sua campagna elettorale e le coniughi con un progetto di modernizzazione del paese” avrà bisogno “di culture e strutture che al Movimento 5 Stelle oggi mancano…
Ma, davanti all’ennesimo bivio e all’ennesimo “che fare” che ci interroga, dovremo tutti ricordare che non c’è nulla di significativo e di utile, a sinistra, che possa ricostruirsi in laboratorio, a partire da astratti enunciati di principio, dichiarazioni di intenti o vacue operazioni di restyling.
Non c’è nulla che possa avere un futuro, a sinistra, se resta lontano da quel popolo che è l’unica base reale su cui sia pensabile una rifondazione”.
Post-PD
di Massimo Marnetto

La manifestazione della Cgil dell’8 ottobre può diventare la prima pietra della costruzione di una nuova sinistra. Andrò per sostenere questa iniziativa, perché condivido i punti che Landini ha messo giù per difendere gli ultimi, candidandosi così ad essere uno dei fondatori del post-PD. La piazza sarà la placenta che nutrirà la nascita di un nuovo soggetto di sinistra, perché il PD è morto con Renzi e da allora sopravvive con trasfusioni di voto utile.
Poi occorrerà anche il contributo di intellettuali, comunicatori e attivisti per rendere il nuovo partito accogliente per giovani ambientalisti, amministratori innovativi, mondo del volontariato. Perché gli ultimi per riemergere hanno bisogno di giustizia sociale. Quel difficile equilibrio che possono costruire solo persone colte, con una competenza maturata sul campo e vertebrate da ideali.