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Reader’s – 30 maggio 2023

Rassegna web di nandocan magazine


Da soli non si vince

“Da soli non si vince”. È il commento di Elly Schlein alla sconfitta del suo partito alle amministrative di domenica scorsa. Con zelo degno di miglior causa, la grande stampa si affretta ad attribuire a una segretaria fresca di nomina l’insuccesso del PD. Trascurando il particolare che altro è guidare un partito al governo e altro all’opposizione. Non è poi colpa della Schlein se l’opposizione è ancora divisa e insufficiente a contestare una maggioranza a cui la leadership finora apparentemente incontrastata di Giorgia Meloni riesce a dare una certa compattezza. Combinando simbologia postfascista, ossequio ai “poteri forti” e quasi feroce atlantismo.

“Da soli non si vince”. Ma è difficile in pochi mesi, una volta mancata l’occasione preelettorale di alleanza con Cinquestelle, indurre un partito ancora diviso ad una collaborazione col partito di Conte, alla vigilia di elezioni europee col sistema proporzionale che ne annullano la convenienza. E’ vero però che la Schlein non sembra aver fatto molto finora per portare il partito sulle posizioni con cui ha vinto alle primarie e poi per tradurle in proposte concrete di tutta l’opposizione a livello parlamentare (nandocan).


Il rischio della chiarezza

di Massimo Marnetto

Effetto Elly per la sconfitta alle amministrative? No, il PD paga ancora l’effetto Renzi. Ovvero un partito indefinito non fuori (alleanze), ma dentro (obiettivi). Come se ne esce?

Prendendo pari pari i temi sollevati da Landini in tutte le piazze sulla giustizia sociale. Dicendo chiaramente che l’evasione si sta mangiando il welfare; e la precarietà sta impoverendo il lavoro. E poi fare proposte nette e conseguenti: assunzione di 10 mila giovani all’Agenzia delle Entrate per far pagare le tasse ai delinquenti (altro che ”pizzo di Stato”) e non ai soliti ”ritenuti alla fonte” (stipendiati e pensionati).

Con i soldi recuperati risanare ambiente, edilizia, sanità e scuola pubblica; con forti investimenti nei Centri per l’Impiego (alla tedesca) per garantire l’incontro domanda-offerta e tarare la formazione sui settori a forte domanda di addetti. Insomma, per il PD è ora di correre il rischio della chiarezza, definendo un progetto di società giusto e sostenibile.


Disincanto americano, stufi dell’impero

Rem

Quanto sono disposti gli americani a sacrificare per l’impero? Questo uno degli interrogativi chiave del nostro tempo. La domanda su Limes e le risposte ragionate di Federico Petroni in una non facile sintesi senza nostri tradimenti, speriamo. Il dubbio riguarda invece il modo di esercitare quel potere. Più sottile quello sul se e quanto gli americani vogliano difendere il loro primato.
Non la classe dirigente, ma la popolazione. La crisi interna impedisce agli Usa di mobilitare la popolazione per le sfide internazionali.

Nuova epoca

La politica estera degli Stati Uniti viene spesso descritta come tensione tra moralità e interessi. Famosa la formula di Henry Kissinger«Come può l’America avanzare il proprio ruolo di esempio umano e campione della giustizia in un mondo in cui il potere è ancora l’arbitro finale? Come possiamo conciliare fini e mezzi, principio e sopravvivenza?». Il cuore del problema è che gli Stati Uniti riescono sempre meno a mobilitare la loro popolazione per le sfide internazionali. La popolazione americana non sente più di appartenere a una nazione eccezionale, eletta da Dio, titolare di una missione universale. Per secoli questa altissima idea di sé ha giustificato l’espansione della potenza statunitense, con la scusa di civilizzare il mondo.

«The greatest country on Earth».

In un recente sondaggio, solo il 21% degli intervistati ritiene di abitare in «the greatest country on Earth». Credersi il Paese più Grande al mondo è opinione minoritaria, e la meno popolare, battuta da «uno dei paesi più grandi» (50%) e addirittura da «altri sono migliori» (27%). Dal 2013 al 2021 è diminuita dal 64 al 44% la percentuale di chi ritiene che il Signore abbia assegnato agli Stati Uniti una responsabilità speciale nella storia dell’umanità’. Il nucleo di valori attorno a cui il governo centrale può radunare gli americani attorno a una missione collettiva è sempre più ristretto.

Il peso dell’impero

Ridurre gli impegni militari internazionali. Il dato più visibile è il calo degli arruolamenti. L’Esercito ha mancato del 25% l’obiettivo per il 2022. Armare l’Ucraina va bene soltanto perché non si combatte direttamente e perché quell’onere finanziario non è ancora entrato in conflitto con altre priorità di spesa. Al Congresso entrano nuove generazioni di politici, a destra e a sinistra, assai critici della politica estera tradizionale, convinti che la principale minaccia sia il cambiamento climatico (i liberal) oppure la Cina (i conservatori), ma soltanto per via dei suoi furti industriali. Molti di loro non interverrebbero a difesa di Taiwan.

I nemici veri per la popolazione

Gli Stati Uniti entrano nella fase calda della sfida con Pechino e Mosca senza aver chiaro chi è il nemico principale. In un sondaggio Gallup, gli americani di orientamento liberal rispondono per il 53% Russia e per il 30% Cina; quelli di orientamento conservatore 76% Cina e 12% Russia; gli indipendenti 46% Cina e 32% Russia. Gli Stati Uniti sono stati in guerra per gran parte del tempo in cui hanno avuto il primato. La supremazia armata globale (Pax Americana) è stata ‘principio ordinante’ del secondo dopoguerra. Ma la progressiva minore disponibilità al confronto genera smottamenti. In Medio Oriente o in Ucraina, con dubbi sulla credibilità delle garanzie di sicurezza date ai Paesi satellite.

Globalizzazione a convenienza

Il versante economico dell’inserimento nella sfera d’influenza statunitense. Dal 1945 gli Stati Uniti importano merci ed esportano investimenti manifatturieri. Ma oggi non propongono più accordi di libero scambio. Usano il loro potere per fare concorrenza industriale ai partner (chip, auto elettrica). Invece di promuovere investimenti all’estero, vanno a caccia di investimenti stranieri in Nord America. Gli apparati provano a far passare nei poteri economici il concetto di ‘corporate national security responsibility’. Partecipare alla pressione economica sulla Repubblica Popolare. Moltissime aziende resistono, salvo quelle su alte tecnologie di nicchia.

America sempre meno europea

Gli statunitensi si sentono meno occidentali e più globali e questo indebolisce il legame identitario con il Vecchio Continente. Joe Biden è l’ultimo politico di spicco convinto che il primato americano in Europa sia premessa di quello nel mondo. Alcuni, soprattutto conservatori, disprezzano apertamente gli europei, da prima che Trump diventasse il loro leader. Durante il secondo conflitto mondiale, una ristretta cerchia di funzionari e intellettuali attorno al dipartimento di Stato e al Council on Foreign Relations, amministrazione Roosevelt, pianifica un dopoguerra centrato sulla supremazia militare statunitense, garanzia di una serie di istituzioni, tra cui le Nazioni Unite, pensate per strutturare il primato americano.

Leadership mondiale

Il primato globale (guai chiamarlo impero) deve essere cementato nella mentalità collettiva dei signor Rossi d’Oltreoceano. Perché tanto zelo? I pianificatori non hanno paura dell’oggi, ma del domani. Temono l’americano medio e i suoi rappresentanti al Congresso. In futuro, il consenso verso la leadership globale potrebbe erodersi. Ed ecco che in America si ripete una lotta eterna tra internazionalisti e isolazionisti. Tra ‘forze del bene’ che vogliono l’affermazione degli Stati Uniti nel mondo e ‘forze del male’, oscure e retrograde, che vogliono invece ritirarsene. La narrazione è platealmente forzata, ma le sue conseguenze sono pesanti.

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L’importanza e la verità dei miti

di Giovanni Lamagna

Un mito è il racconto di personaggi, storie, fatti, vicende, frutto di fantasia, immaginazione, che superano i confini della realtà, sono potremmo dire sur-reali. Il che non vuol dire che siano del tutto ir-reali e, quindi, falsi, semplicemente non-veri e, quindi, del tutto in-significanti.

Se fosse così, se cioè il mito non corrispondesse a nulla di reale, se non avesse un nucleo, un nocciolo di verità (quantomeno psicologica) profondo, non si capirebbe perché gli uomini gli abbiano dato in epoche antiche così tanta importanza e, in alcuni casi, gliene diano ancora oggi, in piena età moderna e contemporanea.

Jung e Hillman

Per l’uomo moderno, pertanto, come ci hanno insegnato pensatori del calibro di Jung e di Hillman (per citarne solo due), non si tratta di negare il valore e il significato dei miti, considerandoli banali fantasie, invenzioni puramente fantastiche, che ci allontanano dal vero e dalla realtà, facendoci prigionieri di un mondo di sogni.

Ma di decodificare i miti, estraendone il significato, il messaggio profondo che essi sono in grado ancora oggi di trasmetterci, traducendolo semmai – quando lo si ritiene utile e, in certi casi necessario – in un altro linguaggio, il linguaggio del realismo e della razionalità.

Che, senza pretendere di negare la lingua della fantasia, del sogno, delle emozioni e dei sentimenti, sia capace di farsene interprete e di parlare anche alla nostra parte più razionale e disincantata, che in epoca moderna è diventata (mi verrebbe di dire: purtroppo!) di gran lunga quella prevalente, anzi dominante.


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