Oggi vorrei parlare un po’ della mia professione. Sono giornalista professionista da quasi 60 anni, con un discreto passato di impegno nella rappresentanza della categoria, sia nel consiglio nazionale dell’Ordine che nel sindacato unitario, Ma da quando sono in pensione ne parlo e scrivo poco, anche perché molte cose sono cambiate dagli anni in cui facevo l’inviato in Rai e pur essendo iscritto all’associazione “Articolo 21” fin dalla fondazione, più di vent’anni fa, temo di aver perduto i contatti personali necessari ad occuparmene con competenza.
Una cosa però non è cambiata, purtroppo, ed è l’attacco all’informazione ed in particolare al “giornalismo di inchiesta sociale tra minacce, intimidazioni, querele bavaglio”. E questo è anche il tema al centro della lezione in calendario oggi, 3 settembre, all’interno del percorso formativo del Corso di Alta formazione “Raccontare la verità, informare promuovendo una società inclusiva” organizzato da Università di Padova, Fnsi-Sindacato giornalisti Veneto e Trentino Alto Adige e Articolo21 con il sostegno dell’Ordine nazionale e regionale.
“L’Italia, negli ultimi rapporti internazionali in materia di libertà di informazione è scesa ad un poco onorevole 58° posto. Il governo Draghi, sotto questo profilo, non ha fatto meglio dei “governi dei peggiori” e non è neppure riuscito a recepire le indicazioni arrivate dall’Unione, evidentemente il “ce lo chiede l’Europa” si è fermato alla soglia dell’articolo 21 della Costituzione”.
Lo ha scritto giorni fa il presidente della Fnsi Giuseppe Giulietti in un editoriale che apre il forum di Articolo21 suggerendo “una grande manifestazione pubblica promossa da tutte le associazioni della categoria prima del 25 settembre”.
“L’Italia – prosegue l’editoriale – negli ultimi rapporti internazionali in materia di libertà di informazione è scesa ad un poco onorevole 58° posto. Come se non bastasse, la relazione annuale sullo stato di diritto, predisposta dalla commissione europea, oltre a segnalare la lunghezza dei processo, lo stato delle carceri, i tempi della detenzione preventiva, ha ritenuto di richiamare l’Italia per la mancata soluzioni delle questioni relative al carcere per i cronisti, alle querele bavaglio, alla tutela delle fonti, alla presunzione di innocenza.
La situazione potrebbe persino peggiorare, dal momento che amiche e amici di Orban, Bannon, Trump, Putin, Bolsonaro non hanno, per usare un gentile eufemismo, una particolare sensibilità in materia di libertà di informazione e non solo.Non sarà facile risalire la china, le premesse non sono incoraggianti. Nessuno più parla di una normativa sul conflitto di interessi, e Berlusconi potrà serenamente ricandidarsi, disponendo del suo impero e, magari, dopo le elezioni, decidendo i vertici della Rai.

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Un comunicato della Fnsi sottolinea quanto e come sia difficile svolgere il mestiere di giornalista a fronte di una costante opera di delegittimazione, di un crescendo di aggressioni fisiche e social, nonché di minacce sempre più pesanti e preoccupanti.
“I toni e i tempi della campagna elettorale portano il governo e le forze politiche a ignorare il fenomeno sempre più preoccupante delle aggressioni e delle minacce ai cronisti. Ormai non passa giorno senza che tentativi di linciaggio e minacce di morte, soprattutto attraverso i social, non raggiungano giornalisti in prima linea contro mafie, malaffare o semplicemente impegnati a smontare le mirabolanti affermazioni di qualche leader politico.
“L’elenco è lunghissimo. Negli ultimi giorni è toccato a Mimmo Rubio, Karima Moual, Giacinto Pipitone, Luca Bottura, David Puente, Niccolò Zancan, Alberto Infelise, soltanto per fare alcuni esempi. Noti e facilmente rintracciabili sono anche gli autori delle minacce. Chissà perché, però, nessuna misura a tutela dei cronisti viene adottata dalle autorità competenti», denuncia la Fnsi.
“Il disinteresse per l’informazione accomuna da tempo le forze politiche, ma chi rappresenta le istituzioni non può assistere inerme alla quotidiana azione di killeraggio nei confronti di chi si sforza di fare il proprio dovere di cronista», conclude il sindacato, che torna a chiedere «efficaci misure per contrastare questi fenomeni per salvaguardare il ruolo della buona informazione e tutelare il diritto dei cittadini ad essere correttamente informati”.
Da Buenos Aires, dove risiede, l’amico Livio Zanotti, per molti anni corrispondente della RAI per l’America latina, ci invia il suo commento all’attentato contro la vicepresidente argentina Cristina Kirchner e ai suoi possibili sviluppi.
Ipnotizzata dall’estremismo l’Argentina sfiora la tragedia

Tutto diventa possibile quando il parossismo s’impadronisce della politica, facendole perdere il senso del limite. Non c’è più necessariamente bisogno di una volontà preordinata per scivolare in un attimo dall’insulto al sangue, dal dramma alla tragedia. L’impulso collettivo può armare la singola follia omicida in un continuum di cui nessuno avverte il precipitare nell’irrimediabile, l’incendio impossibile da domare.
Da Serajevo a Dallas e alla santa romana piazza San Pietro (per restare all’epoca nostra, ma tralasciando il terrorismo come strategia e -visto che siamo in Argentina- come guerra a bassa intensità di gruppi armati e dello stato), l’attentato personale è l’arma occulta della congiura che si fonde con la fede palingenetica trasformata in nichilismo, da qualsiasi parte provenga riassume l’imperativo aristocratico e nullista del “deve essere come deve essere o cesserà di essere”.
Nelle ore immediatamente seguenti all’attentato contro la vicepresidente argentina Cristina Kirchner, il buio metaforico che avvolge la vicenda è ancor più denso di quello della notte d’inverno australe che avvolge Buenos Aires e il paese. Né stupirebbe che neppure il tempo riesca comunque a dissiparlo. Non sarebbe la prima volta.
Si stenta a credere che la Bersa380 semiautomatica giunta a millimetri dalla tempia della controversa leader peronista non abbia sparato solo per una dimenticanza dell’attentatore, che non aveva messo il proiettile in canna. E il cui identikit, per molti aspetti (l’incerta stabilità psichica, i precedenti specifici), richiama quelli di altri protagonisti di attentati politici tristemente famosi.
Il brasiliano Fernando Andrè Sabag Montiel, 35 anni, non risulta essere un militante politico, nessuno lo riconosce. Non appare una famiglia alle spalle. Un mancato assassino arrivato non si sa di dove a minacciare una guerra civile.
La scossa emotiva prodotta dall’attentato. Mobilitazione nelle strade
Ma che -oltre ogni intenzione- potrebbe invece decisamente contribuire ad evitarla. La storia sbroglia talvolta nei modi meno prevedibili i suoi grovigli. E le masse di popolo che in quasi tutto il paese stanno mobilitandosi nelle strade per solidarizzare con Cristina e respingere le presunte forze occulte dietro l’attentato, inducono (dovrebbero indurre) tutte le parti alla più attenta e cauta riflessione. Il pericolo è tutt’altro che passato.
La scossa emotiva prodotta dall’attentato offre tuttavia, anzi ha imposto una tregua. La scintilla delle ultime tensioni sono stati i 12 anni di carcere richiesti dal PM che accusa Cristina di arricchimento illecito, dopo che il tribunale aveva negato alla vicepresidente il ricorso a un ampliamento della sua autodifesa. La discrezionalità era stata vista come un’ulteriore violazione dei diritti dell’imputata. E i suoi più ardenti partigiani avevano cominciato a stazionare giorno e notte attorno alla sua abitazione privata, come tangibile segno di protezione popolare.
La competizione per chi dovesse mantenere l’ordine nell’elegante zona urbana, tra la polizia di Buenos Aires (governata dall’opposizione che sul piano nazionale si richiama all’ex presidente Mauricio Macri) e quella federale (agli ordini del governo peronista) aveva aggiunto altra intemperanza al clima già ardente. In quella folla da stadio, tra i clacson di sostegno a Cristina di molte auto di passaggio, le grida ostili di alcuni vicini, la ressa di giornalisti, fotografi e curiosi si è infilato senza la minor difficoltà l’attentatore. Decine di telefoni cellulari ne hanno filmato l’improvviso levarsi del revolver con la canna che quasi giunge a toccare la tempia della vicepresidente.
Il vorticare nell’etere di quelle immagini rimbalzate da un capo all’altro del paese e del mondo hanno sconvolto l’agitato clima politico argentino e aggiunto ovunque un’inquietudine non minore.
Il ripudio al gesto di Fernando Andrè Sabag Montiel è sostanzialmente unanime, né poteva essere altrimenti.
Quanto meno nell’emozione del momento. Governi, personalità d’ogni paese, singoli cittadini, sindacati, organizzazioni variefanno giungere senza pause alla Casa Rosada messaggi di conforto, di solidarietà, inviti alla pacificazione degli animi. Specialmente intensi dal Brasile, chiamato direttamente in causa dalla nazionalità dell’attentatore. Insomma, un’invocazione alla ragionevolezza che deve presiedere il governo degli uomini (e delle donne, ovviamente), dell’intera umanità. Anche dal Vaticano sono partite parole di auspicio alla pace e alla serenità, ovvie epperò non prive di valoreanche politico.
Le tensioni restano al massimo, ma il richiamo alla responsabilità prevale. Tanto dal punto di vista politico, quanto nella prassi giudiziaria (ricordiamo l’incrocio continuo dei contrasti sociali con le vicende giudiziarie personali ma inevitabilmente anche politiche di Cristina), sebbene stretti i tempi disponibili permettono ancora un rigoroso recupero dei diritti di ciascuna delle parti in causa, dai leader ai cittadini tutti.