Reader’s – 3 maggio 2022

Se un’escalation militare fino allo scivolamento nello scontro diretto tra NATO e Russia rappresenta il pericolo più grave di questa “guerra per procura” in Ucraina, l’alternativa scelta delle sanzioni con la necessaria rinuncia alla “dipendenza” energetica dall’avversario si rivela ogni giorno più problematica.

Piero Orteca

Secondo Piero Orteca poi, uno degli analisti di Remocontro, “parlare di “dipendenza” è un vero eufemismo. “In questo momento, visti anche i traballanti indicatori economici, la Germania è legata mani e piedi al petrolio e al gas che arrivano dalla Russia. Basti pensare che, nonostante tutta la retorica, utilizzata per commentare la sanguinosa invasione dell’Ucraina, Berlino ha continuato a importare l’energia di Putin a tutto spiano”.

Ma non è solo per la Germania. Come riporta il “Financial Times”, il Ministro degli Esteri di Budapest, Peter Szijjarto, in un’intervista alla CNN, ha detto che il suo Paese dipende, rispettivamente, per l’85% (gas) e per il 65% (petrolio) dalla Russia. Tuttavia, non avendo sbocchi al mare, qualsiasi strategia di diversificazione avrebbe bisogno di una vera e propria rivoluzione logistica. Ci vorrebbero anni, insomma. E lo stesso ragionamento, vale per la Slovacchia.

Se la Germania piange, l’Italia non ride

“Negli ultimi due mesi, secondo l’ultimo rapporto stilato dal “CREA” (Centre for Research on Energy and Clean Air), i tedeschi hanno trasferito nelle casse del Cremlino oltre 9 miliardi di euro.

Al secondo posto, persino davanti alla Cina, si piazza l’Italia di Mario Draghi, con acquisti per quasi 7 miliardi di euro. Somma imponente (e impietosa), che pronostica il nostro destino nel malaugurato caso di precoce interruzione delle forniture.

Il “CREA” sostiene che dall’inizio della guerra, la Russia ha esportato, totalmente, qualcosa come 63 miliardi di euro di combustibili fossili. Di questi, circa 44 miliardi sono finiti nell’Unione Europea. In proporzione, si tratta del 30% del carbone, del 50% del greggio, del 70% del raffinato, dell’80% del gas naturale liquido e del 90% del gas in condotta prodotti dalla Federazione russa.

Ecco perché, con un titolo che non ammette repliche, la corrispondente della BBC da Bruxelles, Jessica Parker, ci spiega come l’Europa sia «tormentata dalle sanzioni energetiche da settimane». Ieri, si è svolta l’ennesima riunione comunitaria, per sbrogliare la matassa. Ma, come si prevedeva, ci si è solo parlati addosso, perché queste sanzioni fanno male.

A chi le subisce (molto) e a chi le adotta (da abbastanza a moltissimo). E, al di là delle “aspettative” (chiamiamole così) americane, tutti ne farebbero volentieri a meno, sperando che, nel frattempo, succeda qualcosa che le renda non più indispensabili.

Ecco perché gli osservatori più attenti, a cominciare da Limes diretto da Lucio Caracciolo, ritengono che l’Europa farebbe bene a non appiattirsi sulle posizioni ultra atlantiste di chi, come Biden, si attende e auspica ora una guerra di logoramento che metta Putin e il suo governo alle corde e a dar vita ad un tentativo serio di negoziato.


‘Dottrina Monroe’, ormai solo storia

D’altronde, come sostiene, sempre su Remocontro Michele Marsonet, anche il Sud America non è più “il cortile di casa” degli Usa. Il non voto su condanne e sanzioni alla Russia e il continente a sud del muro con Messico voluto da Trump, prende le distanze da un nord che stanno scoprendo fragile per troppa potenza.

In base alla “Dottrina Monroe”, enunciata dall’omonimo presidente nel lontano 1823, agli Usa spettava una supremazia assoluta nell’intero continente americano, e ciò valeva tanto per la parte settentrionale quanto per quella meridionale.
L’elenco di interventi statunitensi nell’America del Sud e Centrale testimonia che essa ha avuto successo per un periodo molto lungo. L’unica eccezione fu Cuba con l’avvento al potere di Fidel Castro e, in modo più limitato, il Messico, sempre attento a mantenere certi margini di autonomia in politica estera.

Ora, che l’ordine mondiale sia davvero cambiato è testimoniato dal fatto che la suddetta dottrina appare sempre più debole, con un gran numero di nazioni che spesso praticano politiche assai diverse – se non opposte – rispetto a quelle auspicate da Washington. E la cartina di tornasole è fornita dall’invasione russa dell’Ucraina. Biden forse si attendeva che i latino-americani aderissero alle sanzioni antirusse promosse dalla sua amministrazione, così contribuendo all’isolamento internazionale di Vladimir Putin. Invece è accaduto esattamente il contrario.

Nessuno Stato dell’America meridionale e centrale ha imposto sanzioni alla Federazione Russa

Con l’eccezione della piccola Guyana francese, che però dipende ancora da Parigi, nessun Stato dell’America meridionale e centrale ha imposto sanzioni alla Federazione Russa, né si propone di farlo in futuro. E’, anche questo, un segno di quanto sia cambiato l’ordine mondiale negli ultimi anni.
Certamente alcune defezioni erano attese. A Cuba, dopo il “pensionamento” del 90enne Raul Castro, l’attuale presidente Miguel Diaz-Canel ha mantenuto rapporti stretti con la Russia, e ha solo parzialmente attenuato la tradizionale ostilità del movimento castrista verso gli Usa.

Altrettanto prevedibile l’atteggiamento contrario del Venezuela di Nicolas Maduro, che con Mosca intrattiene rapporti di collaborazione in molti campi. Stesso discorso per il Nicaragua di Daniel Ortega e per la Bolivia di Luis Arce, già ministro con l’ex presidente Evo Morales.

Si tratta, in ogni caso, di Paesi con governi, a vario titolo, di sinistra. Che dire però del Brasile di Jair Bolsonaro, ritenuto campione dell’ultradestra e molto amico di Donald Trump? I brasiliani non hanno votato le sanzioni in sede Onu e hanno già detto di non volerlo fare in futuro. Identica posizione hanno assunto l’Argentina di Alberto Fernandez e il Messico di Andres Manuel Lopez Obrador, entrambi contrari all’isolamento della Federazione Russa e favorevoli, invece, a più stretti rapporti di collaborazione con essa.

Gli Usa stanno insomma perdendo la loro tradizionale presa sull’America meridionale e centrale. Ne approfittano i russi e anche i cinesi, sempre più presenti nell’ex cortile di casa degli Stati Uniti.

“Al “Wall Street Journal” erano traumatizzati. Nel primo trimestre di quest’anno, l’America di Biden è andata sotto di quasi 1 punto e mezzo di Pil, rispetto all’ultimo trimestre del 2021. Ma lui ha programmato lo stesso, come ha detto Bernie Sanders, la vera anima progressista del Partito democratico, una spesa di 813 miliardi di dollari per la difesa. Certo, il mondo sembra impazzito e ha spalancato le porte del Tempio di Giano. Ma la Russia non vincerà nessuna guerra. Ha vinto solo quando è stata invasa, dalla Beresina a Stalingrado. In altre occasioni, Crimea 1853, Tsushima, Laghi

Biden potrà far durare la guerra in Ucraina quanto vuole, ma così perderà le elezioni di Medio termine, aprendo la strada, tra due anni, a un Presidente Repubblicano. Chiuda invece questa guerra, costi quel che

costi. E ridarà una speranza a se stesso, all’America e all’intero pianeta.


  • La differenza
    È infatti enorme la differenza tra la guerra e la pace. E la tragedia è proprio questa, che la guerra si concede una pausa per riprendere ancora più incondizionata di prima. E ciò perché questa non è neanche degna di essere chiamata guerra, perché le guerre si fanno per ottenere qualcosa, che è la posta in gioco della guerra. Invece questa è una guerra che ha per fine la negazione reciproca dell’esistenza dell’altro. E attraverso un rovesciamento di ciò, nella costruzione di una umana convivenza tra i membri del popolo palestinese e i cittadini ebrei dello Stato di Israele, che può istituirsi, non una tregua, ma la pace
  • Scendere
    Mi tocca difendere il Ministro Lollobrigida, perché la sua richiesta di fermata del treno in ritardo, per proseguire in auto, era motivata da un interesse pubblico istituzionale, prevalente su quello privato degli altri passeggeri. Ovvero la sua presenza come Ministro – cioè a nome dello Stato – a Caivano, per inaugurare un parco ad alto valore simbolico, come riscatto di un territorio abbandonato al degrado e alla criminalità. (Marnetto)
  • La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele
    La feroce rappresaglia di Israele nella striscia di Gaza, accompagnata da un’ aggressiva reazione dei coloni nella Giordania occupata, rischia ora di compromettere, a vantaggio di Hamas, anche il fragile compromesso con i paesi arabi moderati, avviato col “patto di Abramo” e la compiaciuta assistenza degli Stati uniti. La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele.I Paesi arabi moderati, gli alleati di sempre, il lato debole della geopolitica americana prigioniera di Netanyahu in Medio Oriente. Prima tra tutti la Giordania. Re Abdullah II di fronte alla devastante reazione israeliana ai massacri di Hamas, sta per rivedere la trentennale ‘pacificazione’ con Tel Aviv, ma anche le relazioni privilegiate con Washington
  • Professione reporter dopo il 7 ottobre. I dubbi di Eric Salerno (e non soltanto)
    Come è stata l’informazione dal 7 ottobre a oggi, ossia da quando i palestinesi –‘militanti di Hamas’, ‘terroristi’, ‘nazisti’, ‘criminali di guerra’, ‘partigiani’, ‘combattenti per la libertà’ o altri termini scelti da chi giudicava e raccontava – hanno dato l’assalto a Israele? Cosa sono oggi i giornalisti o fotografi ‘embedded’? Cosa rappresentano i palestinesi arabi che lavorano per i grandi media; giovani o meno che raccontano da Gaza? E la stampa israeliana? Quella italiana?
  • Pazzo
    Guardo l’Argentina e penso all’Italia. Nella nazione del Sud America la povertà si è talmente diffusa da risucchiare nell’angoscia metà della popolazione. I poveri prima smettono di votare (astensione), dopo scelgono il ”pazzo” più distruttivo del sistema che li ha affamati.  E questo processo è più rapido se c’è l’elezione diretta del presidente (o del premier). (Marnetto)
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: