Reader’s – 3 gennaio 2023 rassegna web

Ci aspettano giorni e settimane di celebrazioni di Benedetto XVI che in gran parte dei casi non oseranno addentrarsi con occhio critico sul senso e sull’esito prima della sua presenza ai vertici dell’ex Santo Uffizio (dal 1981 Congregazione per la Dottrina della Fede) e poi del suo papato bruscamente interrotto dalle dimissioni. Io credo invece che onorando una persona così eminente al termine della sua vita si debba evitare ogni enfasi celebrativa e si possa valutare lucidamente e serenamente il suo pensiero filosofico e teologico e le conseguenze che esso ha prodotto, per lunghi decenni, sia dentro la Chiesa cattolica sia nei rapporti fra la Chiesa e il mondo contemporaneo”.

Ratzinger e il suo nemico

di Gilberto Squizzato (fb)

Dico subito che non mi interessa qui intervenire su certi suoi silenzi a proposito dei delitti di pedofilia (non solo peccati, perdonabili in confessionale ma non nei tribunali) di cui fu a conoscenza già quando era vescovo di Monaco di Baviera (silenzi clericalmente giustificati col dovere di sopire gli scandali per non ferire le anime dei credenti più fragili). Neanche voglio pronunciarmi sui motivi autentici delle sue dimissioni, che non pochi hanno interpretato come una resa a fosche faide e inconfessabili segreti interni alla Curia Vaticana che avrebbero stremato il vecchio Benedetto XVI. Altri cercheranno di sapere meglio e di più.

l nucleo portante del suo pensiero

A me interessa piuttosto tentare di cogliere il nucleo portante del suo pensiero, che mi pare essere consistito in una strenua, indefessa, ossessiva lotta contro quello che riteneva il maligno nemico avvelenatore della società contemporanea: il relativismo, dilagato a suo avviso dall’inizio del XIX secolo e pericolosamente disseminato dalla cultura filosofica moderna. Cos’è, in breve, il relativismo, che Ratzinger consideró come il diabolico nemico con cui non poteva venire a patti? E’ quel metodo di pensiero, e quell’orizzonte culturale, che invita a considerare come ineliminabili e insuperabili i limiti della conoscenza e dei linguaggi umani, che proprio per questo sono da considerare non assoluti ma “relativi”, e perció sempre parziali, fallibili, e dunque perfettibili.

Questo relativismo (culturale, scientifico, etico e perció anche religioso) fu per Ratzinger “il male” della modernità contro il quale rivendicò l’urgenza di una Verità assoluta e di parole definitive. E questa Verità- pur auspicando un utile dialogo con le scienze- non poteva consistere per lui altro che nell’Annuncio cristiano. Quella Verità assoluta a suo avviso – lo disse espressamente nel discorso di Ratisbona del 12 settembre 2006- aveva trovato la sua più perfetta definizione ed espressione nei concetti e nelle parole della teologia cristiana dei primi secoli (approssimativamente fra il terzo e quinto secolo) quando la filosofia greca (in sostanza, il neoplatonismo) si sposò con la narrazione evangelica. (Val la pena di ricordare, per la precisione storica, che quella fu l’epoca in cui la dottrina cristiana diventava religione di stato tutelata e imposta dall’Imperatore.)

Un pensiero rigido e inossidabile

Il papa che molti oggi molti ricordano per la sua sorridente mitezza fu in realtà il teologo portatore di un pensiero rigido e inossidabile, intransigente nel rivendicare per la Chiesa il monopolio della salvezza e il possesso di TUTTA la verità e indisponibile a riconoscere che anche le parole di quelle formule dottrinali, espresse in un certo tempo e dentro gli schemi filosofici allora dominanti, non potevano che essere a loro modo anche “relative”, parziali, limitate, adatte ai loro tempi ma forse non in tutto e per tutto vincolanti per i millenni successivi, proprio perché formulate ed espresse da uomini di una certa epoca.

In questo modo Ratzinger svalutò, anzi condannò, ogni altro tentativo di raccontare il Vangelo con paradigmi culturali e concetti diversi da quelli della filosofia greca, imponendo invece dottrine e formule teologiche (quelle del Credo) che perfino gli stessi Apostoli (ebrei del I secolo lontanissimi da Atene) avrebbero faticato a comprendere. Allo stesso modo la cristologia di Benedetto XVI afferma che il “vero Cristo” non è quello di cui gli studiosi cercano di delineare almeno i tratti essenziali con una rigorosa e coscienziosa ricerca storica, ma solo quello della Tradizione ecclesiastica, cioè quello insegnato dal magistero ecclesiastico, dimenticando che la Tradizione giunta a noi dall’antichità è quella delle chiese che sostenute dagli imperatori (Costantino, Teodosio e successivi) sbaragliarono dichiarandole eretiche tutte le altre che pensavano e celebravano Joshua il crocefisso in modo anche solo leggermente diverso.

Alla guida dell’ex Santo Uffizio

Una posizione inscalfibile, quella di Ratzinger, che lo ispirò quando guidò il Tribunale della Corretta Dottrina delle fede e più tardi quando sedette sul trono di Pietro e che da quelle posizioni ai vertici della Chiesa gli fu facile giustificare attribuendola non ai propri meriti intellettuali ma alla grazia divina, anzi allo stesso Spirito Santo.
Non è da stupirsi se un papa integralista e tutto d’un pezzo come Wojtyla scelse proprio lui per guidare l’ex Santo Uffizio. Eppure era sembrato, all’inizio della sua carriera di teologo, negli anni ’60, che Ratzinger fosse interessato all’esplorazione di nuovi orizzonti ben diversi da quelli in cui ben presto si rinchiuse, spaventato dal dilagare nel ‘68 delle rivolte giovanili, del pensiero neomarxista, della rivoluzione sessuale e dei costumi che cambiarono pensiero e vita della società contemporanea.

Nella prestigiosa facoltà di Tubinga aveva lavorato accanto a un gigante del pensiero teologico “aperto” come Hans Kung: proprio lì peró le loro strade ben presto di divaricarono, portando Ratzinger nella Curia vaticana e poi al papato e Kung a scontare una marginalizzazione, da parte dei vertici ecclesiastici, sempre più dura ed opprimente, ma anche a ricevere il consenso di folle sempre più ampie di credenti e laici in ricerca e in dialogo fra loro.

A Wojtyla, già convinto di dover ripristinare almeno in Europa e in Occidente la “cristianità”, cioè un modello di società esplicitamente ispirato alla dottrina e ai valori cristiani, Ratzinger offrì l’armamentario della sua riflessione teologica e il papa polacco seppe trarne efficace alimento per la sua azione politica, oltre che per un ferreo controllo dell’istituzione ecclesiastica.

Una Chiesa depositaria dell’unica verita

Su queste premesse è facile comprendere che Wojtyla prima e poi Ratzinger non potessero che mettere fuori discussione ogni eventuale revisione della dottrina in fatto di sacerdozio, di celibato dei preti, di esclusione della donna dalla presidenza dell’Eucarestia. La loro è rimasta una Chiesa che riconosce e attribuisce solo al prete maschio la gestione del “potere sacro” e crede di accontentare le donne promuovendole a ruoli sempre subalterni a quelli del clero maschile. E dunque obbedienza assoluta dentro l’istituzione anche a costo di radiare dai seminari, espellere dalle comunità, sospendere a divinis teologi, laici e preti in dissenso da questa visione “assolutista” e autosufficiente della Chiesa cattolica depositaria dell’unica Verità, della sola corretta dottrina cristiana, dell’unica morale possibile e dell’unica bioetica di valore indiscutibilmente universale.

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La riforma Cartabia va revocata – Lettera aperta alla Presidente Meloni

di Massimo Marnetto

Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni,  (mail:  presidente@pec.governo.it )

la riforma Cartabia abolisce per molti reati la procedura automatica di avvio del processo (‘‘d’ufficio”) e li riduce a violazioni punibili solo se la vittima li denuncia (”querela di parte”). Questa modifica è un errore, perché espone la vittima del sopruso a minacce (prima) per indurla a non querelare e ritorsioni (dopo) per ritirare la querela, togliendo così la scorta del procedimento d’ufficio ai più indifesi. E’ ovvio che costoro, abbandonati dallo Stato, saranno ricattabili e si convinceranno al silenzio per evitare altre violenze. Ciò che è puntualmente accaduto nel primo caso di applicazione della riforma, con il ritiro della querela da parte di una persona già ridotta alla soggezione da sequestro e pestaggi.

Presidente Giorgia Meloni,

questa riforma va abolita. Non si rende più efficiente la giustizia abbandonando i più deboli alla violenza dei più forti. Questo non è garantismo, ma omissione di legalità. Ed è una degenerazione eversiva: una democrazia senza giustizia è destinata ad essere infiltrata e sopraffatta dalla violenza che rinuncia ad arginare. Siamo in molti ad essere preoccupati per questo atteggiamento rinunciatario dello Stato: revochi questa pessima riforma.


Incerto 2023 con l’Europa al centro della tempesta geopolitica

di Ennio Remondino

Quando finirà il conflitto tra Russia e Ucraina? Se lo chiede il mondo stanco di una guerra che ha fatto definitivamente svanire l’illusione che tragedie del genere non potessero più verificarsi in Europa, che ha travolto la tranquillità che più di 70 anni di pace ci avevano regalato, che ci ha costretti a ricorrere nuovi strumenti di difesa e che ora sta erodendo anche il nostro benessere.
Alcuni dei protagonisti mondiali e infine, qualche considerazione nostra, sui cambiamenti strategici planetari che si stanno evolvendo nella distrazione di molta politica di casa. Non sono Russia-Stati Uniti, o Usa-Cina, ma da subito l’asse atlantico Europa America.

L’ottavo discorso di Mattarella

Dall’ansia delle famiglie per la povertà al richiamo sulla sanità nel discorso di Mattarella. Sinistra e destra, populisti e sovranisti, euroentusiasti ed euroscettici e perfino i movimenti antisistema si sono alternati alla guida del Paese e tutti hanno dovuto «misurarsi con le difficoltà di governare», ad insegnare il rispetto di regole che non possono essere disattese dal del momento. «La folle guerra scatenata dalla Federazione russa all’Ucraina». Il capitolo del Covid, per rilanciare il valore del Servizio sanitario nazionale, mortificato da scarsi investimenti e ancor minore considerazione. «L’aumento della povertà e del bisogno». «L’evasione fiscale», materia divisiva nella stessa maggioranza, e «le differenze tra Nord e Sud». Numerose le bacchettate educatamente rivolte al governo e alla politica in generale, con una lettura di estera ancora molto atlantica, e forse non molto aggiornata.

I discorsi paralleli di Putin e Xi Jinping

Quali messaggi contiene l’ultima telefonata tra Vladimir Putin e Xi Jinping, con cui i due leader hanno concluso il 2022? Il leader russo, sostiene, «con la sua offensiva in Ucraina starebbe distraendo» gli Usa, grandi rivali della Cina, risucchia l’attenzione e le risorse dell’America verso l’Europa, costringe la Nato a occuparsi in prevalenza del conflitto in corso». Nella versione cinese però la guerra in Ucraina viene per la prima volta definita una «crisi internazionale», un’espressione negativa che Xi aveva evitato in passato. Ma da qui a ipotizzare una divergenza o perfino un conflitto, il passo è troppo lungo. Da ricordare i molti voti alle Nazioni Unite che hanno visto l’Occidente, numericamente e politicamente perdente. Esiste un asse sino-russo che ha un peso considerevole verso il Terzo mondo, dal Golfo Persico all’Africa, all’America latina.

La guerra produce solo sconfitti

Russia-Usa via Ucraina. «Solo pochi conflitti hanno alla fine dei reali vincitori», la sottolineatura storica su Limes. Sui due fronti. «Quando finalmente si arriverà a una tregua, a quel punto l’Ucraina, pur avendo conseguito sul campo notevoli successi militari, si ritroverà con un territorio sconvolto dalle operazioni belliche e con una infrastruttura funzionale pressoché interamente distrutta». Sul fronte opposto, «la Russia avrà perduto buona parte di quella credibilità che conservava agli occhi dell’opinione pubblica occidentale, la quale le accreditava, specie nel settore militare, capacità rivelatesi ben superiori a quelle che essa è realmente in condizioni di esprimere».

Stati Uniti e Nato una sola cosa

«Non che la Nato e gli Stati Uniti escano da questo confronto in maniera positiva», analizza Giuseppe Cucchi, ricordando la troppo spesso ‘dimenticata’ «politica dissennata di allargamento verso est condotta per decenni dall’Alleanza, malgrado i crescenti segnali di allarme provenienti da Mosca». Una politica agevolata dalla scelta di segretari generali della Nato «del tutto proni alla volontà degli Usa». Con gli Stati Uniti come l’unico protagonista di rilievo ad aver tratto apparentemente solo benefici da uno scontro armato di questo tipo e di queste dimensioni.

I guadagni americani

Il conflitto ha dimostrato che l’America è ancora di gran lunga la maggiore potenza militare al mondo e la prevalenza americana nell’Alleanza atlantica ne esce rafforzata e indiscussa. Eccezione la Turchia, ‘carta jolly’, pronta ad essere giocata con il consenso Usa, a fare da mediatore o provocatore, a convenienza. Altro vantaggio Usa, il rapporto con un’Unione Europea, «sempre più costretta, sia in campo politico sia militare, ma soprattutto economico, a ricoprire il ruolo di vaso di coccio fra vasi di ferro». Gli embarghi imposti alla Russia sin dagli inizi del conflitto hanno infatti pesato soprattutto sui paesi europei, mentre gli Usa ne stanno uscendo considerevolmente avvantaggiati, specie nel settore dell’energia, ma non solo.

Europa la vera sconfitta

Il conflitto che insanguina l’Ucraina, sta distruggendo assieme la ricchezza e il benessere dell’Europa. Il 12% se l’è portato via un anno di ‘ipersvalutazione’, mentre un altro 10% è stato bruciato dalle perdite in Borsa. Un ritmo negativo che nessuna economia può sostenere a lungo. Non c’è quindi da meravigliarsi se in tutti i paesi europei sta rapidamente crescendo il risentimento non solo verso la Russia ma anche verso gli Stati Uniti, colpevoli di aver favorito una divisione del carico ‘leonina’ -sempre Limes-, da assegnare a noi tutti gli svantaggi mentre i loro benefici restano intoccabili.

Ne sono un chiaro indice le dichiarazioni di assoluta fedeltà al legame transatlantico rilasciate con crescente frequenza dai leader politici di ogni paese e partito i quali sentono il bisogno di rassicurare sé stessi e l’alleato su una situazione che sta loro sfuggendo di mano.

Abbiamo bisogno della pace, dunque, e ne abbiamo bisogno subito. Cosa aspettiamo allora a rendercene pienamente conto e a pretenderla a gran voce?


Lula Presidente, l’America Latina riparte da Brasilia

di Livio Zanotti

E’ stata una cerimonia tutta politica, carica di simbolismi contrapposti come mai prima, in cui la spontaneità più immediata ha rivivificato di colpo e per intero la consumata ritualità del passaggio di poteri da un capo di stato all’altro. Le provocatorie assenze di Jair Bolsonaro e del suo vice generale Hamilton Mourau, che volevano boicottarla al fine diprotrarre il clima di tensione che l’ha preceduta, hanno invece reso evidenti -esaltandole- le straordinarie capacità di leadership dell’ex operaio metalmeccanico Lula da Silva, per la terza volta portato al Palacio do Planalto dalla sua lungimiranza e dal voto popolare. Una longevità che non ha precedenti nella vita democratica del Brasile e ne proietta la figura sull’immediato futuro dell’intera America Latina e di nuovi equilibri strategici.

Ad apporgli la fascia giallo-verde con i colori nazionali distintiva della suprema magistratura dello stato tradizionalmente funzione del presidente uscente e segno di continuità istituzionale, Lula ha chiamato una nota esponente del movimento cooperativo, Alina Souza, un’emozionata ma vigorosa donna nera di 33 anni. Ad accompagnarla c’erano Ivan Baron, che da anni combatte una propria infermità mentale e le difficoltà di organizzare i portatori del suo stesso handicap, il capo indigeno Raoni Metuktire, rappresentanti degli operai metallurgici, degli artigiani e dei lavoratori agricoli. La loro disinvolta autenticità ha dissolto ogni sospetto di retorica. A sottolinearlo è stato Gerardo Alckimin, l’ex governatore dello stato di San Paulo, un socialdemocratico formatosi politicamente nell’Opus Dei e attento agli umori del mondo imprenditoriale, che accortamente Lula ha voluto come vice.

“Veniamo a restaurare lo stato democratico e a riunire i brasiliani divisi dal pregiudizio e dall’odio”

“Veniamo a restaurare lo stato democratico e a riunire i brasiliani divisi dal pregiudizio e dall’odio”, ha esordito il presidente, al momento di presentare i 33 ministri del suo governo, rappresentativi dei diversi popoli, culture e interessi presenti nel gigantesco universo brasiliano (8,5 milioni di km2, 220 milioni di abitanti, decimo PIL del mondo). E subito dopo ha cominciato ad annunciare i provvedimenti immediatamente vigenti che già cominciano a nutrire di contenuti concreti e rilevanti le promesse della campagna elettorale. Revoca del decreto di Bolsonaro che dimezzava i contributi sociali (programmi PIS e Cofins) dovuti dalle grandi imprese: per l’Erario si tratta di un gettito di circa un miliardo e mezzo di dollari. Revoca delle norme decise da Bolzonaro per liberalizzare ricerca e sfruttamento di minerali preziosi e legnami di pregio in Amazzonia: avevano favorito il moltiplicarsi di omicidi e violenze alle persone e all’ambiente. 

Gli ultimi assembramenti degli irriducibili di Bolsonaro, camionisti e auto-denominati “patrioti della Patria” (si, con questa ridondanza, forse specialmente solenne all’orecchio degli interessati), per settimane impegnati a ostacolare nelle strade e tutt’attorno alla capitale la sua normale vita quotidiana, sono stati sciolti poco prima della cerimonia d’insediamento. Ma restano in circolazione. Volevano indurre in ogni modo le forze armate ad un colpo di stato che la impedisse. Tentando poi di dividerle, una volta compreso che sebbene ostili a Lula, le massime autorità militari si eranorassegnate a rispettare la Costituzione, secondo quanto autorevolmente suggerito dai loro pari grado degli Stati Uniti. Nel groviglio dei sussurri e dei sospetti ce ne sono che assicurano la disponibilità all’avventura di alcuni reparti, noti per i precedenti estremisti dei rispettivi comandanti. 

Fare del Brasile una super-potenza ambientalista

Il Brasile ambirebbe così a diventare il riferimento di una svolta culturale dell’intera (o quasi) America Latina, in questa fase storica in cui pur mantenendo ciascun paese le proprie peculiarità e problematiche sembrano prevalere le affinità politiche orientate a sinistra. Le incaute estemporaneità di Bolsonaro, al quale il bon ton diplomatico è del tutto sconosciuto, hanno contribuito non poco a deteriorare l’economia nazionale e provocare una serie di contrasti più o meno aspri con Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna.

Lula può pertanto proclamare a buon diritto che intende “riportare il Brasile nel mondo”. Parla di visitare Washington e l’Europa, ma anche l’India e la Cina. Vent’anni dopo, il suo ritorno promette di riprendere la battaglia contro la fame e le disuguaglianze in Brasile; ma ricercando una convergenza latinoamericana e la collaborazione con un Occidente anch’esso bisognoso di alleanze solidali.


  • Ci pensa Giorgia
    di Massimo Marnetto Lampedusa: finta la scena (campo profughi ripulito per l’occasione); finto l’impegno europeo (redistribuzione su base volontaria, cioè briciole); finte le soluzioni nazionali proposte (più carcere, meno integrazione); vera invece l’esasperazione degli isolani che denunciano la truffa mediatica. Ma Lei tira dritto. Se la linea ‘’ci pensa Giorgia’’ si afferma, presto vedremo la … Leggi tutto
  • Dopo lunga malattia
    DOPO LUNGA MALATTIA. L’ONU è morta, scrive oggi Massimo, il titolo al pezzo l’ho aggiunto io. La causa di morte era presente già alla sua nascita, col diritto di veto attribuito alle grandi potenze che l’hanno fondata. Raniero La Valle e tutti noi di Costituente Terra continuiamo ad essere convinti che la soluzione ci sia ma ci sarà solo il giorno in cui avverrà anche tra i popoli e gli Stati quel riconoscimento reciproco dei diritti di ognuno con l’abbandono delle logiche di dominio purtroppo ancora in vigore. Una costituzione per la Terra.
  • La difesa dei confini
    il Consiglio dei ministri di lunedì scorso ha inserito nel decreto-legge per gli aiuti al Mezzogiorno nuove norme di contrasto all’immigrazione, ciò che nel linguaggio di Giorgia Meloni significa “la difesa dei confini”. Finora si intendeva come difesa dei confini il contrasto alle invasioni armate. Le nuove misure decretate in Italia dal governo hanno anche un sapore razzista perché destinate a colpire soprattutto profughi di pelle scura, e bisogna stare attenti a questo in tempi in cui in Europa ci si scambia accuse di nazismo. Ma se la risposta alla tragedia dei migranti viene iscritta nel capitolo della difesa dei confini, è proprio l’istituto dei confini, celebrati finora come sacri e inviolabili, che bisogna riformare.
  • Manca il come
    Meloni ha invitato la Von der Lien a Lampedusa per giustificare  ‘’una missione europea per fermare gli sbarchi’’, ma manca il come. Si fermano i barchini in alto mare ordinando di tornare indietro? E se non lo fanno, si bloccano tra le onde finché non affondano? E se iniziano a moltiplicarsi i naufragi, come farà l’Italia a sventare le accuse di respingimento e omissione di soccorso in mare illegali? 
  • Kiev fa causa a Polonia, Ungheria e Slovacchia sul grano. All’Onu contro la Russia
    Il commercio del grano crea nuove tensioni politiche in Europa dell’est. Il ministro del Commercio ucraino ha annunciato ieri che Kiev farà causa a Polonia, Ungheria e Slovacchia per aver mantenuto il divieto di importazione ai cereali provenienti dall’Ucraina. Zelensky alle Nazioni unite: «Dateci più armi e rinnegate la Russia». Il partito repubblicano Usa si divide sui finanziamenti a Kiev
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