L’anno prossimo compirò sessanta anni di una professione, quella giornalistica, di cui ho dovuto purtroppo assistere al progressivo degrado, sia in termini di qualità e competenza, sia di adeguato riconoscimento della medesima da parte degli editori. Che le due tendenze avrebbero proceduto insieme era prevedibile ma, con il dilagare delle collaborazioni esterne “un tanto a pezzo” il crollo delle retribuzioni ha raggiunto livelli così infimi da renderli, in gran parte dei casi, assolutamente incompatibili sia con la dignità del giornalista che con la buona qualità delle prestazioni. Il collega Stefano Ferrante dell’associazione stampa romana lascia intendere chiaramente, intervenendo su Facebook, che i progressi verificati dal sindacato nella lotta allo sfruttamento del lavoro giornalistico sono ancora piuttosto scarsi.
Giornalismo un tanto a pezzo
STEFANO FERRANTE SU FACEBOOK : La legge sull’equo compenso per i giornalisti freelance è ancora inapplicata per l’inerzia dei governi che si sono succeduti, sensibili alle resistenze degli editori. È una battaglia, per definire i minimi retributivi, che l’Associazione Stampa Romana e Informazione@futuro stanno conducendo con pochi compagni di strada, senza il sostegno compatto di tutto il sindacato. Le altre categorie professionali hanno ripristinato criteri di giusta remunerazione, dopo la soppressione dei tariffari per effetto delle regole europee. Noi no. E lo sfruttamento vergognoso è sotto gli occhi di tutti. Per i freelance c’è anche l’allarme previdenziale. Il nuovo Inpgi (il superstite Inpgi 2, che rischia di nascere gravato di costosissimi e pletorici organismi a danno degli iscritti) erogherà in futuro, sulla base dei contributi accantonati, pensioni medie di 200 euro al mese! Il nostro impegno è per allineare queste prestazioni almeno ai minimi Inps.
La guerra in Ucraina ‘esagera’ ma Biden-Putin non sanno come uscirne

da Remocontro
Titoli sul ‘dialogo’, ma al momento siamo all’elenco dei No contrapposti. Mentre la guerra cambia. Putin, annuncia l’ANSA, apre ai colloqui ma dice no alle condizioni Usa, cioè che prima le truppe di Mosca lascino il territorio ucraino. E gli Stati Uniti devono riconoscere come territorio della Federazione le regioni ucraine recentemente annesse. Putin, lo dice al telefono col tedesco Scholz, e Biden gli risponde via Macron senza nulla di nuovo
Parole attorno al nulla in cerca di vie di fuga. Mentre intanto, a nove mesi dal suo inizio, è la guerra che cambia.
La politica del tanto dire nel poco fare
Macron il mediatore tra Biden e Putin ma alla fine il presidente Usa fa sapere che non ha alcuna intenzione di discutere con Putin. E i fatti non sono migliori delle parole. Gli investimenti che Russia e Stati uniti hanno programmato nel comparto militare. «A Mosca nel 2023 alzeranno del 50 per cento il budget dell’esercito, ora attorno agli ottanta miliardi di dollari, e di una volta e mezzo gli investimenti nella produzione bellica», segnala Luigi De Biase sul Manifesto. Mentre gli Stati uniti hanno dato il via libera pochi giorni fa a una commessa da un miliardo e duecento milioni di dollari per fornire all’Ucraina sei sistemi antimissile di nuova generazione che la multinazionale americana Raytheon consegnerà nei prossimi mesi.
Fermi alle origini del contenzioso Russia-Nato da cui è nata la guerra. Allora i diplomatici russi avevano avanzato una serie di proposte sulla sicurezza in Europa che comprendevano la chiusura delle basi Nato nell’area del Mar Nero e la neutralità ucraina. Nessuno accettò di discuterle.
Nove mesi di guerra dopo
La carta di Limes in copertina è un aggiornamento sull’invasione russa dell’Ucraina e fotografa la situazione a nove mesi dall’inizio del conflitto, con le valutazioni strategiche e militari di Mirko Mussetti. È possibile osservare alcune importanti differenze sul campo rispetto a settembre e all’inizio dell’«operazione militare speciale» ordinata dal presidente russo Putin il 24 febbraio 2022.
Ritirata russa su posizioni stabili
Il cambiamento sul terreno più evidente è il ritiro delle forze russe da Kherson e dalla sponda destra (ovest) del fiume Dnepr. Ripiegate su posizioni più difendibili, le truppe russe possono continuare a bombardare con la propria artiglieria il capoluogo ormai spopolato della regione formalmente annessa dalla Federazione Russa. Di fatto, le stesse pretese territoriali russe ridimensionate sul campo.
La ‘terrazza di Kerson’
Il ripiegamento dalla “terrazza di Kherson”, spiegano gli esperti di cose militari e scrive Limes, «stronca i sogni russi di ulteriore progressione verso ovest, cioè verso Mykolajiv/Nikolaev e soprattutto verso la città portuale di Odessa. Appare ormai stroncato in questa fase bellica il tentativo moscovita di collegare i territori russi e filorussi di Donbas, Crimea e Transnistria». Le truppe di Mosca -aggiunge Mirko Mussetti-, devono guardarsi anche dai tentativi delle forze speciali di Kiev di riconquistare la penisola di Kinburn lembo di terra fondamentale per l’isolamento dei porti fluviali di Kherson e Mykolajiv e del porto marittimo di Očakiv.
Strategia del Generale Inverno
Ad inverno avviato, le truppe di invasione russe si trovano sulla difensiva lungo tutta la linea di contatto. «Gli scambi di artiglieria sono particolarmente intensi nel Donbas [pallini raggiati rossi], dove le truppe ausiliarie russe (Gruppo Wagner, milizie separatiste) sono impegnate da settimane nel tentativo di catturare la cittadina di Bakhmut, importante crocevia nell’oblast’ di Donec’k e unico saliente dove i russi conservano l’iniziativa bellica».
Non poteva mancare una proposta Marnetto per avviare trattative di pace. Chissà che almeno questa, dopo tante autorevoli non ancora accolte, verrà presa in considerazione dai poco interessati. Ragionevole ma di dubbia efficacia la considerazione sull’invio delle armi: “le armi per la difesa dei civili hanno un senso, se nel frattempo si lavora per la pace. Altrimenti, il conflitto si cronicizza”.
Retro-negoziatori
di Massimo Marnetto
Sono favorevole all’invio di armi all’Ucraina, per intercettare i missili russi lanciati contro case, ospedali, centrali termiche e acquedotti. Vedere bombardato il reparto pediatria, migliaia di persone dormire a -10 gradi, cucinare con le candele, mi convince che c’è ancora bisogno di aiuti militari per evitare le rappresaglie russe sui civili. Tuttavia, all’invio di armi dovrebbe corrispondere la convocazione di un tavolo di elaborazione di pace, dove si siedano non i contendenti, troppo distanziati dal conflitto, ma i retro-negoziatori: Usa, Cina, Europa, con un ”osservatore” del Vaticano.
Questa assise dovrebbe svolgere una fitta consultazione preparatoria – e riservata – con le parti in causa, per limare il testo di un accordo, finché non sia accettabile per entrambe. Solo allora il piano sarebbe ufficialmente la base per un incontro dei belligeranti. Con allegati lubrificanti, che prevedano cospicui fondi di ricostruzione per l’Ucraina e una revoca progressiva delle sanzioni alla Russia, in base al rispetto delle fasi di decongestione bellica. Insomma, le armi per la difesa dei civili hanno un senso, se nel frattempo si lavora per la pace. Altrimenti, il conflitto si cronicizza.
Governo residuale

(Editoriale di Left , dicembre 2022)
di Simona Maggiorelli
«Io sono Giorgia, madre, cristiana», afferma il presidente del Consiglio, che vuole essere appellata al maschile. Io sono Simona, atea, non ho figli, ho l’onore e il privilegio di dirigere Left. Rappresento una devianza dal punto di vista di Meloni e della congerie di governo? A dire il vero personalmente questo mi preoccupa poco, forte di una lunga storia di antifascismo, di giornalismo militante e soprattutto di ricerca e formazione personale nell’ambito di una quarentennale ricerca sulla realtà umana, che ha messo al centro il riconoscimento dell’identità e della creatività delle donne, al di là di fare figli. Quello che mi preoccupa semmai è l’afasia della sinistra che non contrasta le proposte del governo Meloni con sufficiente forza e mi domando perché.
L’afasia della sinistra
O meglio temo di saperlo: perché al fondo l’opposizione è altrettanto cattolica. Altrimenti avrebbe alzato barricate già quando, poco prima dell’insediamento dell’esecutivo di destra, il senatore Gasparri ha riproposto, come ad ogni inizio legislatura, un ddl che vorrebbe riconoscere identità giuridica all’embrione, in maniera del tutto antiscientifica e antistorica, addirittura negando quel che affermava già il Codice napoleonico, ovvero che la vita umana comincia alla nascita.
Il neonato ministero della Famiglia e della natalità
Impotente sul piano economico, dacché non si può scostare dalla via solcata da Draghi per la manovra, dilaniato fra mille contraddizioni interne su Flat tax, pensioni e molto altro, il governo Meloni ha accelerato sul piano culturale e identitario. Prima con la nomina alle presidenze di Senato e Camera di La Russa e di Fontana, uno collezionista di busti del Duce e mai dichiaratosi antifascista, l’altro già deus ex machina del reazionario Congresso delle famiglie che vide la partecipazione anche di Salvini e di Dugin, l’ideologo di Putin. Poi ecco i nomi dei ministeri ribattezzati in chiave cattolica e sovranista, uno dei quali il neonato ministero della Famiglia e della natalità affidato a Eugenia Roccella, ex radicale, paladina della campagna contro la Ru486, farmaco salvavita secondo l’Oms, ma per lei veleno per «aborto chimico».
Forse il governo guidato dalla leader di Fratelli d’Italia non metterà mano alla legge 194, ma…
… sul modello polacco e ungherese attaccherà la libertà di scelta colpevolizzando le donne che decidono di interrompere una gravidanza obbligandole ad ascoltare il battito del cuore del feto, come sembra che già accada in Umbria, stando alla denuncia della deputata di Sinistra italiana Piccolotti. E soprattutto renderà loro impervia la via all’aborto farmacologico, ovviamente meno invasivo di quello chirurgico, perché per costoro bisogna soffrire per interrompere una gravidanza. L’obiettivo è chiaro.
- Sulla valutazione dei magistratiSi vuole introdurre la valutazione della Magistratura? Bene, allora li si faccia anche per gli altri poteri dello Stato. Per il Parlamento vedrei bene l’adozione del ‘’criterio di laboriosità’’: un quinto degli onorevoli e senatori più assenteisti nel biennio vengono sostituiti con elezioni suppletive programmate.
- ‘Peggio del presente, a Gaza, c’è solo il futuro’: Eric SalernoAltri ostaggi sono tornati a casa, tutti sembra, in relativamente buone condizioni di salute anche se traumatizzati dal rapimento e dalla prigionia nelle mani degli uomini di Hamas. In Israele manifestazioni di giusta felicità miste a paura per quello che è accaduto il 7 ottobre e per quello che potrebbe ancora succedere. Centinaia di video passano di mano in mano. In Israele e fuori.
- La differenzaÈ infatti enorme la differenza tra la guerra e la pace. E la tragedia è proprio questa, che la guerra si concede una pausa per riprendere ancora più incondizionata di prima. E ciò perché questa non è neanche degna di essere chiamata guerra, perché le guerre si fanno per ottenere qualcosa, che è la posta in gioco della guerra. Invece questa è una guerra che ha per fine la negazione reciproca dell’esistenza dell’altro. E attraverso un rovesciamento di ciò, nella costruzione di una umana convivenza tra i membri del popolo palestinese e i cittadini ebrei dello Stato di Israele, che può istituirsi, non una tregua, ma la pace
- ScendereMi tocca difendere il Ministro Lollobrigida, perché la sua richiesta di fermata del treno in ritardo, per proseguire in auto, era motivata da un interesse pubblico istituzionale, prevalente su quello privato degli altri passeggeri. Ovvero la sua presenza come Ministro – cioè a nome dello Stato – a Caivano, per inaugurare un parco ad alto valore simbolico, come riscatto di un territorio abbandonato al degrado e alla criminalità. (Marnetto)
- La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con IsraeleLa feroce rappresaglia di Israele nella striscia di Gaza, accompagnata da un’ aggressiva reazione dei coloni nella Giordania occupata, rischia ora di compromettere, a vantaggio di Hamas, anche il fragile compromesso con i paesi arabi moderati, avviato col “patto di Abramo” e la compiaciuta assistenza degli Stati uniti. La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele.I Paesi arabi moderati, gli alleati di sempre, il lato debole della geopolitica americana prigioniera di Netanyahu in Medio Oriente. Prima tra tutti la Giordania. Re Abdullah II di fronte alla devastante reazione israeliana ai massacri di Hamas, sta per rivedere la trentennale ‘pacificazione’ con Tel Aviv, ma anche le relazioni privilegiate con Washington