Ieri è morto Gianni Minà. Era facile volergli bene e anch’io gliene ho voluto, fin da quando, poco più giovane di me, venne a lavorare al tg2. Entrò come freelance e dopo parecchi mesi di precariato mi domandò, poiché a quell’epoca guidavo il comitato di redazione, di dargli una mano per l’assunzione in RAI. Gli anni successivi dimostrarono quanto produttiva e meritoria fosse per l’azienda quella tardiva decisione. Molti anni dopo, entrambi ottantenni, lo notai ad una manifestazione per l’ambiente, seduto accanto a un gazebo. Appena mi vide si alzò per avvicinarsi e, commossi ambedue, ricordammo i vecchi tempi. Caro Gianni, anche se fossi l’ultimo dei tuoi amici, non potrei mai dimenticarti.(nandocan)
Ciao Gianni
Ascanio Celestini su Facebook
Una volta chiedo a Gianni se gli va di presentare un suo documentario in una piccolissima rassegna. Dovrebbe venire al teatro del Quarticciolo che a quel tempo era diretto dA Veronica Cruciani. Non c’è una lira e non possiamo pagargli un taxi, ma nemmeno dirgli di venire con la sua macchina. Così mi offro io.
A quel tempo c’avevo un vecchio furgone rosso che qualche settimana dopo è stato rottamato. Per fortuna quella sera non pioveva perché dalla parte del passeggero la guarnizione era secca e entrava acqua.
Visto che si presta per questo incontro mi prendo la libertà di invitarlo ancora. Mi dice che viene con la regista Loredana Macchietti che poi è sua moglie. La persona che ha lavorato con lui per tanti anni. Mi dice pure che per quanto riguarda l’automobile sono autonomi.
Sarà perché s’aspettava di rimontare su un furgone scassato? Bo. Non credo. Mi sa che in giro per il mondo gli sarà capitato di peggio. Ma visto che non sono riuscito a organizzargli nemmeno il trasporto mi offro di portarli a cena.
Chi conosce il Quarticciolo sa che non è proprio come Trastevere. Non ci sono molti ristoranti esclusivi. Non ci sono molti ristoranti e basta. Vicino al teatro ce n’è uno. La specialità è una quaglia cotta al forno con una ciriola spaccata in due, olive e funghi.
“Se vuoi ci spostiamo verso il centro” dico.
Ma a lui piace l’idea che ci facciamo due passi e restiamo in borgata.
Lui che ha conosciuto Fidel Castro, Robert De Niro, il Subcomandante Marcos, Garcia Marquez, Muhammad Ali, i Beatles, Maradona, Sepulveda…
quella sera ha incontrato anche il Quagliaro del Quarticciolo.
C’eravamo conosciuti proprio a cena una decina di anni prima. A casa sua. Dalla prima volta Gianni e Loredana mi hanno fatto sentire a casa. Forse questo è il loro segreto, che poi non è un segreto.
È solo umanità.
E anche tutti quei racconti di Gianni sembravano incontri con gente qualsiasi.
Castro è uno conosciuto in vacanza.
De Niro è l’attore del teatro parrocchale.
Muhammad Ali è il pugile della palestra popolare.
Tutta gente di casa.
Tutto il mondo un condominio.
Tutta la vita un viaggio.
Tortura e Costituzione

di Massimo Marnetto
‘E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Questa breve frase – che vieta la tortura pur non nominandola – è scritta nella Costituzione (art.13). Lo ricordo al Governo di destra che ritiene il rispetto del fermato e del detenuto un intralcio al lavoro di mantenimento dell’ordine e della custodia, da rimuovere.
Meloni e i suoi vorrebbero lasciare agli agenti libertà di ecchimosi e umiliazioni, come se i pestaggi avvenuti nella caserma Bolzaneto a Genova o nel carcere di S.M. di Capua a Vetere fossero episodi marginali. Sbagliano, la tutela di una persona ristretta ha rilevanza costituzionale. E qualifica una democrazia, che è realizzata, quanto più tutela la legalità senza infierire su chi la infrange.
Non contraddire mai, taci.

Post di ASPIC, scuola superiore europea di counseling, Cosenza
Se non approvi ciò che dice l’altro non sollevare polemiche o voler a tutti i costi avere ragione, rimani nel silenzio. Questo del silenzio non è un atto di sottomissione come la mente ti porta a credere, bensì un atto di regalità. Perché vuoi costringere l’altro a pensarla come te? Forse perché tu stesso non credi davvero a ciò che dici e vuoi conferme “dall’esterno?” o forse perché non tolleri di essere contraddetto?
Vedi…si ignorano sempre alcune cose importanti quando non si è d’accordo con ciò che un altro dice…la prima è il fatto che non sappiamo come l’altro “veda” la realtà e ancor meno sappiamo a che livello evolutivo egli si trova; la seconda è che ignoriamo spesso che ciò per cui oggi ci battiamo domani sarà mutato e la nostra opinione con lui.
Ognuno vede la propria realtà ed essa è per lui “reale” come la nostra lo è per noi…ecco il perché del silenzio…non tanto perché se stiamo zitti ammettiamo di avere torto ma bensì perché è sciocco voler che gli altri ci diano “ragione”…l’autentico sapere proviene dal cuore e il cuore non ha bisogno dell’approvazione altrui.”
Lettera di Gurdijeff a sua figlia
Le guerre a buoni e cattivi di maggior comodo. Vittime e crimini incrociati messi da parte
Giovanni Punzo su Remocontro
«Il telefono alle due del mattino: l’addetto alla cifra porta un telegramma appena arrivato da Belgrado. […] “Si prepara l’aggressione della Nato contro il nostro paese. Il pericolo è imminente e viene proclamato lo stato di guerra …”». Con queste parole asciutte e drammatiche Miodrag Lekic, ambasciatore jugoslavo a Roma, descrive nel suo diario le prime ore del 24 marzo 1999.

La guerra per il Kosovo (e altro da non dire)
Nel novembre 1995 a Dayton era stato raggiunto un accordo per porre fine alla guerra in Bosnia. Come scrisse il plenipotenziario americano Richard Holbroke, si erano svolte delle trattative ‘big bang’, ovvero erano stati riuniti – o meglio ‘chiusi dentro’ – i principali protagonisti della guerra (il serbo Milosevic, il bosniaco Izetbegovic e il croato Tudjman assieme ad altri rappresentati occidentali) e nell’arco di tre settimane si era giunti all’accordo.
Quando invece, dopo la crisi del Kosovo, fu riunito a febbraio 1999 il vertice di Rambouillet, apparve subito evidente che lo stesso modello non era utilizzabile.
Una prima fase di trattative, che aveva come obiettivo il riconoscimento di una sostanziale autonomia per il Kosovo, fallì per l’opposizione di entrambi i contendenti: da parte albanese si continuò infatti a parlare di indipendenza, mentre da parte serba risultava inaccettabile l’interposizione di forze Nato. Alla ripresa nel mese di marzo il segretario di stato americano Madeleine Albright convinse gli albanesi ad accettare l’autonomia, ma non i serbi riguardo il ruolo della Nato.
La face successiva fu quindi l’intervento militare che durò settantotto giorni e si articolò soprattutto in raid aerei che misero in ginocchio la Serbia. Paradossalmente, nonostante il governo di Milosevic fosse manifestamente in crisi da tempo e il consenso nei suoi confronti nettamente in calo, gli attacchi aerei invece lo rinforzarono. Solo nel mese di giugno, dopo l’ingresso via terra di forze Nato in Kosovo, furono sottoscritti gli accordi di Kunanovo che sancivano il ritiro serbo dalla regione.
Campagna aerea e bombe mai buone
Gli effetti della campagna aerea sulla Serbia furono semplicemente devastanti. L’operazione «Allied force», alla quale presero parte più di mille aerei e una trentina di navi dell’Alleanza Atlantica, provocò almeno tremila vittime: come in tutte le guerre contemporanee in maggioranza furono civili e si stima infatti che solo un terzo fossero militari. Notevoli inoltre i danni alle infrastrutture, dalle centrali elettriche agli acquedotti, dai ponti alle strade. Non mancarono episodi molto controversi ancora oggi che allargarono il solco tra i belligeranti: basti accennare alla distruzione della sede televisiva di Belgrado (23 aprile, 16 vittime) o ai gravissimi danni subiti dall’ambasciata della Repubblica Popolare Cinese che l’8 maggio provocarono tre vittime.
Per nulla edificante fu anche la vicenda del treno carico di civili colpito da un aereo in cui risultò che il filmato era stato ‘manipolato’ nel tentativo di sostenere la versione dell’incidente e non dell’attacco deliberato (12 aprile, 55 vittime). Non mancarono nemmeno episodi di ‘fuoco amico’, come quando furono colpiti sette guerriglieri kosovari (22 maggio), o altri casi in cui furono semplici profughi come accadde il 14 aprile.
Particolarmente dolorosi infine altri due episodi, a tutt’oggi senza colpevoli: il 31 maggio un’esplosione nell’ospedale di Surdulica provocò la morte di oltre venti persone, mentre il 21, nel corso del bombardamento delle carceri di Pristina, si erano avute un centinaio di vittime. Del tutto sproporzionate le perdite dell’Alleanza (esclusivamente statunitensi), anche se – probabilmente per circostanze fortuite – i serbi abbatterono un modernissimo caccia Nighthawk, uno dei primi ‘aerei invisibili’.
Lekic e il ruolo dell’Italia
Quando scoppiò la guerra per il Kosovo il governo di Belgrado interruppe le relazioni diplomatiche con tutti i paesi della Nato, ad eccezione della Grecia e dell’Italia. Indubbiamente con il paese ellenico esisteva una lunga e tradizionale amicizia basata sulla ‘cuginanza’ religiosa e sulla comune lotta di liberazione dagli ottomani, ma anche su un atteggiamento simile nei confronti della questione albanese e del crescente nazionalismo che si andava manifestando.
Diverso invece il caso italiano, a cominciare dal fatto che nessuno ‘invitò’ – come si dice in linguaggio diplomatico – l’ambasciatore jugoslavo Lekic a rientrare a Belgrado. Eppure gli aerei della Nato partivano dall’Italia, che forse mai come allora confermò la sua caratteristica di maggiore ‘portaerei’ del Mediterraneo, mentre l’ambasciatore rimase al suo posto continuando l’attività di osservatore, analista e negoziatore che si recava spesso al ministero degli esteri per ascoltare ed essere ascoltato.
Grazie al diario tenuto da Lekic emerge un quadro dell’Italia molto sfaccettato, polarizzato tra la solidarietà all’Alleanza che indubbiamente ci fu e un sincero desiderio di pace, ma risaltano anche le figure di un variegato mondo politico nostrano. Nonostante la sua situazione particolare e personale, cominciava a preoccuparlo una possibile ‘balcanizzazione’ anche dell’Occidente, un modo di ragionare pericoloso che tendeva a separare con un taglio netto torti e ragione, non solo dannoso per la diplomazia, ma a volte anche per il buon senso.
- Sulla valutazione dei magistratiSi vuole introdurre la valutazione della Magistratura? Bene, allora li si faccia anche per gli altri poteri dello Stato. Per il Parlamento vedrei bene l’adozione del ‘’criterio di laboriosità’’: un quinto degli onorevoli e senatori più assenteisti nel biennio vengono sostituiti con elezioni suppletive programmate.
- ‘Peggio del presente, a Gaza, c’è solo il futuro’: Eric SalernoAltri ostaggi sono tornati a casa, tutti sembra, in relativamente buone condizioni di salute anche se traumatizzati dal rapimento e dalla prigionia nelle mani degli uomini di Hamas. In Israele manifestazioni di giusta felicità miste a paura per quello che è accaduto il 7 ottobre e per quello che potrebbe ancora succedere. Centinaia di video passano di mano in mano. In Israele e fuori.
- La differenzaÈ infatti enorme la differenza tra la guerra e la pace. E la tragedia è proprio questa, che la guerra si concede una pausa per riprendere ancora più incondizionata di prima. E ciò perché questa non è neanche degna di essere chiamata guerra, perché le guerre si fanno per ottenere qualcosa, che è la posta in gioco della guerra. Invece questa è una guerra che ha per fine la negazione reciproca dell’esistenza dell’altro. E attraverso un rovesciamento di ciò, nella costruzione di una umana convivenza tra i membri del popolo palestinese e i cittadini ebrei dello Stato di Israele, che può istituirsi, non una tregua, ma la pace
- ScendereMi tocca difendere il Ministro Lollobrigida, perché la sua richiesta di fermata del treno in ritardo, per proseguire in auto, era motivata da un interesse pubblico istituzionale, prevalente su quello privato degli altri passeggeri. Ovvero la sua presenza come Ministro – cioè a nome dello Stato – a Caivano, per inaugurare un parco ad alto valore simbolico, come riscatto di un territorio abbandonato al degrado e alla criminalità. (Marnetto)
- La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con IsraeleLa feroce rappresaglia di Israele nella striscia di Gaza, accompagnata da un’ aggressiva reazione dei coloni nella Giordania occupata, rischia ora di compromettere, a vantaggio di Hamas, anche il fragile compromesso con i paesi arabi moderati, avviato col “patto di Abramo” e la compiaciuta assistenza degli Stati uniti. La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele.I Paesi arabi moderati, gli alleati di sempre, il lato debole della geopolitica americana prigioniera di Netanyahu in Medio Oriente. Prima tra tutti la Giordania. Re Abdullah II di fronte alla devastante reazione israeliana ai massacri di Hamas, sta per rivedere la trentennale ‘pacificazione’ con Tel Aviv, ma anche le relazioni privilegiate con Washington