Reader’s – 28 febbraio 2023

rassegna web di nandocan magazine

Non l’abbiamo vista arrivare

di Raniero La Valle

“Anche questa volta, non ci hanno visto arrivare”. Sono state queste le prime parole di Elly Schlein nell’accettare la vittoria che pochi minuti prima il suo concorrente alle primarie del PD, Stefano Bonaccini, le aveva “concesso” (e invece, contro il linguaggio del politichese scorretto, le avevano “concesso” gli elettori). Ma è proprio vero che non l’hanno vista arrivare? No, non è vero. Tanto l’hanno vista arrivare, che ne sono rimasti terrorizzati, giornalisti, politici, conduttori televisivi, governanti, uomini del mercato, vestali della conservazione. custodi dell’establishment.

Avevano tanto congiurato per la fine del PD, la scomparsa dei partiti, la diserzione dalle urne, il commiato dalle ideologie, che quando hanno visto il rovesciamento dei pronostici, la sconfitta degli apparati di partito, la minaccia della novità, ne sono stati traumatizzati, ed è stato tutto un rincorrersi di ipotesi, di lamenti, di moniti, di esorcismi su come sarebbe stato un Partito Democratico rinato dalle ceneri, che con una giovane leader iconoclasta si rimettesse a fare politica, a compiere scelte, a parlare di alternative. E tutti a dire: sì, ma almeno sull’atlantismo, sulla fedeltà all’America di Biden, sull’invio di armi, sulla riconquista della Crimea all’Ucraina in odio della Russia, sulla guerra, resti con noi, non si azzardi a cambiare posizione nella linea del PD.

Non una parola sulla guerra e noi su questo aspettiamo di vederla arrivare.

Ebbene, proprio su questo, e solo in questo, noi non l’abbiamo vista arrivare. Non una parola nel primo rapporto con l’informazione, nel discorso della vittoria. Non un’apertura alla ricerca di una nuova responsabilità dell’Italia, dei suoi governi, della sua opinione pubblica, delle sue culture politiche. Certamente lo farà, e noi appunto su questo aspettiamo di vederla arrivare. E lo diciamo non solo per l’assillo che sta nel cuore della nostra visione politica, ma anche per il successo della sua impresa, per il ritorno del PD sulla scena pubblica, per il suo risorgere come partito, per la ripresa della sua funzione nazionale, per il recupero della sua dignità di forza popolare intesa al bene comune.

Molte infatti sono le cose da fare, e molte la nuova segretaria del PD ha promesso di farle. Ma ci sono, tra tutti,  “i problemi più urgenti”, ovvero il mare e la guerra, cioè il mondo da fare.

…E fu il “mai più la guerra”

Siamo a una svolta  in cui è vitale capire quali siano le priorità. Accadde anche con la Chiesa cattolica, al Concilio: si mise allora molta carne al fuoco, tanta era l’ansia e il bisogno del rinnovamento: la liturgia, il latino, il rinnovamento biblico,  il primato pontificio, l’episcopato, l’ecumenismo, la missione. E alla fine si capì che tutto questo sarebbe stato vano, che la Chiesa non sarebbe cambiata, che la Curia avrebbe di nuovo preso il sopravvento se non si fossero individuati “i problemi più urgenti”, se non fosse stato il mondo con la sua umanità a irrompere e a mettere in causa la quiete della Chiesa. E si scoprirono i “segni dei tempi”, evocati da papa Giovanni, e si ruppe con vecchie dottrine, si prefigurò una Chiesa in uscita per entrare nel mondo e nella storia. E fu il “mai più la guerra” proclamato dalla tribuna dell’ONU, la espulsione della guerra dalla ragione stessa dell’uomo, dalla sua antropologia, l’abbandono perfino delle verità teologiche che avevano millantato per secoli le “guerre giuste”, anche quelle “umanitarie”, per il petrolio, le guerre in nome delle sovranità offese.

La chiamata della donna alla vita pubblica

E ne discese, in coerente conseguenza, la chiamata della donna alla vita pubblica, i lavorator rivendicati sempre come soggetti e persone, il superamento dei rapporti di dominio, le Costituzioni, l’ONU, l’appello alla verità, alla giustizia, alla libertà, all’amore. Religione? No, politica, o meglio la ritessitura dell’integrità umana, la ricomposizione della convivenza, del rapporto tra religioni e culture, tra pace e diritto, della riconciliazione con la Terra, non scissa tra natura e storia.

Per l’Italia, per il mondo, non ci vuole meno di questo.

Certo, tutto ciò non è nelle possibilità di un solo  partito, e nemmeno del solo sistema politico come tale.
Ma occorre cominciare. “Dietro l’angolo” occorre prendere un’altra strada. La grande forza del PCI in Italia, il consenso che ebbe, l’efficacia della sua egemonia, perfino la qualità della sua cultura non vennero dalla sua ideologia classista, dalla sua debole risposta al capitalismo imperante, nemmeno dalla questione morale, ma vennero dalle sue scelte di politica internazionale, dalle lotte per la pace, dal no ai missili a Comiso, dalla scelta a favore del diritto e della liberazione dei popoli.
Su queste sponde non solo in Italia, ma in Europa e sull’Atlantico – “allargato! – vorremmo veder arrivare quei leaders che da tempo aspettiamo.


Piantedosi e la disperazione

ANSA/ GIUSEPPE PIPITA

di Massimo Marnetto

La disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei propri figli”. Ha detto proprio così il Ministro Piantedosi con i corpi dei naufraghi a Cutro ancora sulla spiaggia, senza capire l’assurdità delle sue parole.

E’ come rimproverare una madre che si butta dalla finestra del suo appartamento in fiamme, perché ha in braccio anche il figlio che può farsi male. Ma lo sa il Ministro da quali condizioni di vessazione, privazione ed esasperazione scappano questi profughi? Pensa forse che si ammucchino su una barchetta col mare grosso a cuor leggero?

Non abbiamo ancora smaltito le parole in libertà di Valditara e già arrivano quelle altrettanto a sproposito di Piantedosi. Che Meloni e Fratelli d’Italia avessero un problema di classe dirigente inadeguata lo si sapeva. Ma che diventassero ministri personaggi così modesti si sta rivelando un disastro peggiore delle aspettative.


Wall Street vuole che finisca la guerra per far partire il business della ricostruzione

«Può sembrare un tantino rivoltante, ma già c’è chi, sulla pelle dell’Ucraina e sul sangue dei suoi morti, pensa a imbandire la tavola per l’enorme abbuffata». Piero Orteca, cronista testimone di mille nefandezze umane, ancora si indigna. «Quella dei capitali che pioveranno, a miliardi di dollari, per la ricostruzione dopo la guerra». Forti interessi americani oltre le enormi commesse militari, ma anche ucraini per il ‘cessate il fuoco’ senza vittoria che presto o tardi sanno che arriverà.

Piero Orteca su Remocontro

È un giornale di “seconda fila”, il New York Post(NYP), a parlare delle grandi manovre che, per ora, si svolgono sotto traccia. Il quotidiano fa anche un resoconto dei dibattiti (qualcuno allarmato), tra i tanti finanzieri d’assalto che vorrebbero partecipare al “business” post-bellico. Così Carlo Gasparino, in un articolo titolato «Wall Street ha gli occhi puntati sull’Ucraina», scrive che «la più grande società di gestione finanziaria del mondo, BlackRock, continua a tenere riunioni di alto livello con il governo di Kiev, compreso Zelensky». D’altro canto, è la considerazione del NYP, l’Ucraina è pronta a ricevere massicci stanziamenti americani, per rimettere in piedi tutte le infrastrutture devastate dai bombardamenti russi. Gasparino, tra le grandi holding interessate, cita anche JPMorgan, che, recentemente, ha spedito i suoi rappresentanti in prima linea, dalle parti di Kiev, dove, tra un missile e l’altro, hanno cercato di monitorare la situazione.

Pronti subito 100 miliardi

Da ciò che ha potuto appurare il NYP, le banche private americane avrebbero già pronti i fondi da investire in Ucraina. Almeno fino a 100 miliardi di dollari. Il problema principale è, naturalmente, che bisognerà prima far finire la guerra e censire i danni, per poi passare ai progetti di ricostruzione veri e propri. Che devono essere pianificati, integrati e finanziati.

Ostacolo corruzione, finanza Usa da Zelensky

Il secondo ostacolo, purtroppo, è la corruzione, che esiste come in tutte le società del blocco ex sovietico. È un’eredità o, meglio, una logica conseguenza di una ipertrofia burocratica spaventosa, che ha alimentato fenomeni di parassitismo in tutti i gangli della macchina statale. Jamie Dimon di JPMorgan e Larry Fink di BlackRock hanno incontrato Zelensky nelle scorse settimane, per discutere le prospettive di una possibile collaborazione finanziaria. Visto il calibro dei proponenti, entrambi hanno potuto chiedere al Presidente ucraino di intervenire per stroncare i fenomeni di corruzione che, a loro avviso, si verificano nel suo Paese. Specie a livello di governance. Bene, pare che i banchieri Usa non siano rimasti molto soddisfatti dagli impegni presi da Zelensky. «O non se ne rende conto – è stato il commento – oppure non riesce a farlo». Però, a merito del Presidente ucraino, va detto che, nelle ultime settimane, i suoi ripetuti interventi hanno portato a diversi cambi al vertice del Governo

Zelensky oltre la guerra quanto?

Dall’esterno, molto semplicemente, non possiamo sapere quanto è forte il suo potere contrattuale. Il timore dei banchieri americani, però, è che accanto a Zelensky ci siano degli ‘oligarchi’ (sullo stile russo) più o meno mascherati che, quando arriveranno i capitali, si daranno da fare ‘per dire come spenderli’.

Capitalismo clientelare detto ‘oligarkhiya’

A questo punto, il rischio di investire in Ucraina, per la ricostruzione, viene così riassunto dal New York Post: «A Kiev, questo marchio di capitalismo clientelare si chiama ‘systema’ oppure ‘oligarkhiya’. È un’alleanza tra governo e grandi imprese che mina la forza della concorrenza del libero mercato. Guadagni e concussioni fanno parte del sistema e questo è sempre un vicolo cieco per un capitale privato significativo».

Wall Street pronta, ma non di corsa

In realtà, pare di capire che, in prima battuta, a Wall Street, tutti si siano convinti che la guerra potrebbe durare a lungo. E fino ad allora nessuno si muoverà. Zelensky ha detto che non cederà nemmeno un metro di territorio. Mentre Putin non accetterà mai che si rimetta in discussione l’annessione della Crimea, fatta dalla Russia nel 2014. A queste condizioni, le trattative sono morte prima di nascere. Ma il problema è che manca un ‘piano B’ per chiudere la guerra. Così, si va avanti giorno per giorno. È la strategia sposata dagli americani, che potremmo definire ‘per prova ed errori’, senza uno straccio di logica preordinata.

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Ucraina, Bosco e Sceresini sono tornati in Italia: «Inutile restare, libertà di stampa a rischio»

@fnsisocial

I due reporter, cui era stato ritirato l’accredito il 6 febbraio, hanno lasciato il Paese in guerra «con grande amarezza, dietro consiglio della nostra Ambasciata. Altri giornalisti italiani sono stati inseriti in questa “lista di proscrizione”».

Dopo essere rimasti dal 6 febbraio 2023 in Ucraina senza la possibilità di lavorare a causa del ritiro del loro accredito da parte delle autorità locali, Alfredo Bosco e Andrea Sceresini sono tornati in Italia. Lo hanno annunciato i due reporter, che erano in Ucraina sin dall’inizio del conflitto, in una lettera datata 25 febbraio inviata alla loro legale Alessandra Ballerini in cui spiegano le motivazioni della loro scelta.

«Dopo 19 giorni in attesa di spiegazioni ufficiali che non sono mai arrivate, abbiamo deciso di lasciare l’Ucraina. Era il 6 febbraio quando i nostri accrediti giornalistici sono stati sospesi dal ministero della Difesa di Kyiv. Da allora non abbiamo più potuto svolgere il nostro lavoro di reporter, e per ragioni di sicurezza abbiamo dovuto lasciare il Donbass alla volta di Kyiv. Abbiamo contattato più volte le autorità ucraine, che sono state sollecitate, oltre che dalla Ambasciata, anche dall’Ordine dei giornalisti, dalla Fnsi e dal nostro avvocato Alessandra Ballerini. Ci era stato detto che avremmo dovuto sottoporci a un interrogatorio da parte dell’Sbu, i servizi di sicurezza di Kyiv. Per 19 giorni, come ci era stato espressamente richiesto, abbiamo atteso con pazienza questa convocazione che tuttavia non c’è mai stata.

Calunnie gravissime e periocolose

Nel frattempo le uniche voci che ci sono giunte, e che hanno iniziato a circolare abbondantemente proprio dal 6 febbraio, sono quelle che ci descrivevano come “propagandisti filorussi” e “collaboratori del nemico”. Si tratta di calunnie gravissime e pericolose, specie in zona di guerra. La nostra colpa – così ci è stato detto dalla Farnesina – sarebbe quella di aver raccontato il conflitto su entrambi i fronti a partire dal 2014, realizzando inchieste e reportage (peraltro non certo in favore dei russi) anche nelle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk. Tanto sarebbe bastato a renderci automaticamente dei giornalisti “nemici”.

Il 21 febbraio – stando a quanto ci è stato riferito dall’Ambasciata italiana – le autorità ucraine hanno persino messo il veto sulla nostra partecipazione alla conferenza stampa Meloni-Zelensky. Questo nonostante il fatto che l’elenco dei giornalisti che avrebbero potuto prendere parte all’evento fosse stato compilato dai nostri diplomatici, e che non fosse necessario alcun accredito militare. È stato questo episodio, in particolare, a farci capire che la nostra attesa era diventata inutile.


  • La differenza
    È infatti enorme la differenza tra la guerra e la pace. E la tragedia è proprio questa, che la guerra si concede una pausa per riprendere ancora più incondizionata di prima. E ciò perché questa non è neanche degna di essere chiamata guerra, perché le guerre si fanno per ottenere qualcosa, che è la posta in gioco della guerra. Invece questa è una guerra che ha per fine la negazione reciproca dell’esistenza dell’altro. E attraverso un rovesciamento di ciò, nella costruzione di una umana convivenza tra i membri del popolo palestinese e i cittadini ebrei dello Stato di Israele, che può istituirsi, non una tregua, ma la pace
  • Scendere
    Mi tocca difendere il Ministro Lollobrigida, perché la sua richiesta di fermata del treno in ritardo, per proseguire in auto, era motivata da un interesse pubblico istituzionale, prevalente su quello privato degli altri passeggeri. Ovvero la sua presenza come Ministro – cioè a nome dello Stato – a Caivano, per inaugurare un parco ad alto valore simbolico, come riscatto di un territorio abbandonato al degrado e alla criminalità. (Marnetto)
  • La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele
    La feroce rappresaglia di Israele nella striscia di Gaza, accompagnata da un’ aggressiva reazione dei coloni nella Giordania occupata, rischia ora di compromettere, a vantaggio di Hamas, anche il fragile compromesso con i paesi arabi moderati, avviato col “patto di Abramo” e la compiaciuta assistenza degli Stati uniti. La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele.I Paesi arabi moderati, gli alleati di sempre, il lato debole della geopolitica americana prigioniera di Netanyahu in Medio Oriente. Prima tra tutti la Giordania. Re Abdullah II di fronte alla devastante reazione israeliana ai massacri di Hamas, sta per rivedere la trentennale ‘pacificazione’ con Tel Aviv, ma anche le relazioni privilegiate con Washington
  • Professione reporter dopo il 7 ottobre. I dubbi di Eric Salerno (e non soltanto)
    Come è stata l’informazione dal 7 ottobre a oggi, ossia da quando i palestinesi –‘militanti di Hamas’, ‘terroristi’, ‘nazisti’, ‘criminali di guerra’, ‘partigiani’, ‘combattenti per la libertà’ o altri termini scelti da chi giudicava e raccontava – hanno dato l’assalto a Israele? Cosa sono oggi i giornalisti o fotografi ‘embedded’? Cosa rappresentano i palestinesi arabi che lavorano per i grandi media; giovani o meno che raccontano da Gaza? E la stampa israeliana? Quella italiana?
  • Pazzo
    Guardo l’Argentina e penso all’Italia. Nella nazione del Sud America la povertà si è talmente diffusa da risucchiare nell’angoscia metà della popolazione. I poveri prima smettono di votare (astensione), dopo scelgono il ”pazzo” più distruttivo del sistema che li ha affamati.  E questo processo è più rapido se c’è l’elezione diretta del presidente (o del premier). (Marnetto)
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