Guerra televisiva, bombardamento a tappeto
Antonio Cipriani: “Tutto il giorno devastati da talk show e altri salottini mediatici in cui personaggi talvolta ambigui, spesso senza alcuna preparazione, straparlano di virus, di terrorismo o di guerra. Indifferentemente. Già, “est modus in rebus”, dovrebbero ricordarsene i colleghi televisivi che ogni sera sprofondano con le trasmissioni in ore di chiacchiere scontate e polemiche inutili per cui ha ragione Cipriani a lamentarsene su remocontro. Non tutti però. Andrea Purgatori su Atlantide , ha dimostrato anche ieri sera che si può mantenere l’attenzione critica sull’attualità senza scadere nel banale e nello scontro ripetitivo dei pregiudizi.
“È il calderone dell’intrattenimento che si fa ossessione – ribadisce Cipriani – senza mai passare per i fatti che il giornalismo dovrebbe narrare, fonti alla mano (se è ancora possibile nell’epoca della propaganda)….Insomma, le persone muoiono sotto le bombe e noi ci balocchiamo con ragionamenti in bianco e nero senza capo né coda. Affondando come comunità di persone, deragliando culturalmente, destinati al peggio.”
ORDINE DEI GIORNALISTI: NO ALLO SHOW DELL’ORRORE
Oggi, finalmente, una nota dell’esecutivo dell’Ordine dei Giornalisti interviene ad ammonire i colleghi: “Abbiamo più volte ribadito la necessità e l’importanza di raccontare i fatti della guerra senza censure, ma con umanità e professionalità, evitando di cadere nello show dell’orrore. Le norme deontologiche dei giornalisti indicano un percorso preciso: verità sostanziale dei fatti, nei limiti del possibile e delle fonti, e continenza nel linguaggio e nell’uso delle immagini.
“Richiamiamo soprattutto i direttori delle grandi testate, in particolare quelle televisive, ad un uso rispettoso e responsabile dei video e delle riprese, per il racconto del conflitto in Ucraina. E’ soprattutto in momenti come questi che dobbiamo riscoprire la nostra professione come un servizio da svolgere in modo attento e rigoroso.”
ll deficit è di sinistra?
Mentre con oggi riprende su nandocan la mia presentazione della breve storia dell’uguaglianza di Piketty, Massimo Marnetto si pone la domanda se fare altro debito pubblico riduce o aumenta le disuguaglianze. E “semplificando” risponde: “è di sinistra se serve a fare investimenti che si ripagano con i vantaggi che creano (innovazione, occupazione, welfare, ecc.); non è di sinistra, se serve solo a tappare i buchi della spesa corrente, per non disturbare gli evasori. Ma in entrambi i casi, aggiunge, “bisogna andarci piano, perché aumentare il debito significa sottrarre fondi per pagarne gli interessi; e soprattutto scaricare l’onere della sua riduzione sulle generazioni future…. Molto meglio sarebbe intervenire con tasse sui grandi patrimoni e con il recupero deciso dell’evasione fiscale di quei falsi poveri, che mettono le mani nelle tasche dello Stato”.
Perché facciamo il bene?
Dall’economia alla morale, temi che non sono poi così lontani tra loro. La parola va al nostro amico filosofo Giovanni Lamagna, deluso da un’affermazione di Umberto Galimberti ne “Il Viandante della filosofia” (conversazione con Marco Alloni; Compagnia editoriale Aliberti; 2021), che a pag. 99, così afferma: “… non credo che uno decida di fare il bene o il male, piuttosto sente di avere paura di fare il male e perciò compie il bene.”
“Trovo questa affermazione molto deludente; perché banale, superficiale, approssimativa, non degna pertanto del livello intellettuale di chi l’ha fatta”. Contesta Lamagna: di quale paura di tratta? Paura di commettere un peccato, paura di subire una punizione, paura come senso di colpa? Per cui io, più che di paura, avrei parlato di paure; perché le paure possono anche essere molto diverse tra di loro.
La convinzione interiore che “fare il bene” ci “fa stare bene”
In secondo luogo, prosegue Lamagna, mi sarei chiesto: può essere ancora definito “bene” quello che viene fatto per pura e semplice paura? In questo caso la mia risposta sarebbe stata netta: no, non è realmente “bene” quello che viene fatto solo o principalmente per paura! In terzo luogo ed è questa l’obiezione principale che muovo a Galimberti – non è affatto vero che il bene si fa essenzialmente e manco innanzitutto per paura. Anzi, io credo che il vero bene si faccia non per paura, ma per il piacere di farlo, perché si è raggiunta la convinzione interiore che “fare il bene” ci “fa stare bene”, ci rende felici (per quanto sia possibile esserlo a noi mortali), che “fare il bene” realizza la nostra vocazione interiore profonda, quella che gli antichi Greci chiamavano “il nostro daimon”.