Reader’s – 2 maggio 2022 (rassegna web)

“Il grande errore degli Stati Uniti è credere che la Nato sconfiggerà la Russia». Lo dichiara il prestigioso economista statunitense Jeffrey Sachs, direttore dello Earth Institute della Columbia University, rispondendo sul Corriere della Sera a Federico Fubini su quelli che lui individua come gli errori dell’Occidente nei rapporti con la Russia post-sovietica, errori che avrebbero contribuito ad aprire la strada al nazionalismo revanscista di Vladimir Putin”.
Non un tifoso di Putin, certamente, è il commento di Remocontro, ma in Italia in questi tempi di spesso feroce tifoseria, molti lo avrebbero certamente crocifisso.
“Sperando non sia tra i possibili capi di imputazione anche la sua nomina da parte di papa Francesco all’Accademia Pontificia”.

La Pace dimenticata

«Gli Stati Uniti sono più riluttanti della Russia nella ricerca di una pace negoziata…tipica arroganza e miopia americana. È difficile capire cosa significhi ‘sconfiggere la Russia’, dato che Vladimir Putin controlla migliaia di testate nucleari. I politici americani hanno un desiderio di morte? Conosco bene il mio paese».

«I leader sono pronti a combattere fino all’ultimo ucraino. Sarebbe molto meglio fare la pace che distruggere l’Ucraina in nome della ‘sconfitta’ di Putin».

Chi è che non vuol trattare

“La Russia vuole un’Ucraina neutrale e l’accesso ai suoi mercati e alle sue risorse. Alcuni di questi obiettivi sono inaccettabili, ma sono comunque chiari in vista di un negoziato. Gli Stati Uniti e l’Ucraina invece non hanno mai dichiarato i loro termini per trattare. Gli Stati Uniti vogliono un’Ucraina nel campo euro-americano, in termini militari, politici ed economici. Qui si trova la ragione principale di questa guerra. Gli Stati Uniti non hanno mai mostrato un segno di compromesso, né prima che la guerra scoppiasse, né dopo».

Quei ‘silenzi di tomba’

«Quando Zelensky ha lanciato l’idea della neutralità, l’amministrazione americana ha mantenuto un silenzio di tomba. Ora, stanno convincendo gli ucraini che possono realmente sconfiggere Putin. Ma, appunto, anche solo l’idea di sconfiggere un Paese con così tante armi atomiche è una follia. Ogni giorno setaccio i media per trovare almeno un caso di un esponente statunitense che approvi l’obiettivo di negoziare un accordo. Non ho visto una sola dichiarazione su questo».

Putin, trattativa e crimini di guerra

«Se vogliono processare Putin per crimini di guerra, allora devono aggiungere alla lista degli imputati George W. Bush e Richard Cheney per l’Iraq, Barack Obama per la Siria e la Libia, Joe Biden per aver sequestrato le riserve in valuta estera di Kabul, alimentando così la fame in Afghanistan. E l’elenco non finisce qui».
«Non intendo scagionare Putin. Voglio sottolineare che bisogna fare la pace, ammettendo che siamo nel pieno di una guerra per procura tra due potenze espansioniste: la Russia e gli Stati Uniti. Non per nulla al di fuori degli Stati Uniti e dell’Europa, pochi Paesi sono schierati con l’Occidente su questo. Giusto gli alleati degli Stati Uniti come il Giappone e la Corea del Sud. Gli altri vedono all’opera la dinamica delle grandi potenze».

Due pesi e due misure

«Tra l’altro è interessante vedere come gli Stati Uniti e l’Australia si stiano strappando i capelli per un patto di sicurezza tra la Cina e le piccole Isole Salomone, a 3.000 chilometri dall’Australia. Questo accordo viene visto come una terribile minaccia alla sicurezza dall’Occidente. Come si deve sentirsi allora la Russia riguardo all’allargamento della Nato all’Ucraina».

Della lunga intervista del prestigioso economista americano, il Corriere della Sera citato da Remocontro trae una difficile sintesi per punti:

  • Per salvare l’Ucraina dobbiamo porre fine alla guerra, e per porre fine alla guerra abbiamo bisogno di un compromesso in cui la Russia si ritira e la Nato non si allarga.
  • Gli Stati Uniti vogliono che l’Ucraina combatta per proteggere le prerogative della Nato. Già questo è un disastro ma, senza una soluzione ragionevole e razionale, ci aspettano rischi molto più grandi.
  • L’idea che l’allargamento non avrebbe avuto luogo è in realtà più un’operazione di pubbliche relazioni che una verità.
  • Le sanzioni andrebbero revocate come parte di un accordo di pace. La guerra in Ucraina è terribile, crudele e illegale, ma non è la prima guerra del genere.
  • Gli Stati Uniti sono stati anche coinvolti in innumerevoli avventure irresponsabili: Vietnam, Laos, Cambogia, Afghanistan, Iran (golpe e dittatura del 1953), Cile, Iraq, Siria, Libia, Yemen. Questo solo per citarne alcune…
  • L’Unione europea dovrebbe muoversi in modo molto più deciso per favorire un accordo di pace. Un embargo totale su petrolio e gas probabilmente getterebbe l’Europa in una recessione.
  • La guerra e le sanzioni stanno già creando difficoltà politiche in molti Paesi e un forte aumento della fame nei Paesi più poveri, in particolare in Africa, che dipendono molto dai cereali importati.
  • Anche Biden pagherà un prezzo politico al carovita alle elezioni di novembre.
  • Sono stato consigliere economico di Mikhail Gorbaciov nel 1991 e di Eltsin nel 1992-3. Il mio obiettivo principale era aiutare l’Unione Sovietica, poi la Russia come paese indipendente dopo il dicembre del ‘91, a mettere fine a una dura crisi finanziaria, in modo da garantire la tenuta sociale e migliorare le prospettive di pace e riforma.
  • Quando nel 1989 proposi un’assistenza finanziaria internazionale per la Polonia i miei argomenti furono accolti dalla Casa Bianca e dai Paesi europei. Quando feci le stesse proposte per l’Unione Sovietica sotto Gorbaciov nel 1991, e della Russia sotto Eltsin nel 1992-3, la Casa Bianca le respinse.
  • La pesante situazione finanziaria dell’Unione Sovietica e della Russia nei primi anni ‘90 ha contribuito alla caduta dei riformatori, al dilagare della corruzione e infine all’ascesa al potere di Putin.
  • Un grosso problema si è creato per l’arroganza degli Stati Uniti, che hanno lanciato l’allargamento della Nato verso Est dopo aver promesso nel 1990 che non l’avrebbero fatto.
  • Il sostegno americano all’estromissione del presidente filorusso dell’Ucraina Viktor Yanukovych nel 2014 e il successivo riarmo dell’Ucraina su larga scala da parte degli Stati Uniti hanno drammaticamente peggiorato, anche loro, le relazioni tra Russia e Stati Uniti.
  • Né ho mai ricevuto un solo copeco per il mio lavoro, né un solo dollaro. Le mie consulenze per i governi, dall’inizio 37 anni fa in Bolivia, non hanno mai previsto un compenso oltre il mio stipendio accademico. Non consiglio i governi per ottenere guadagni personali.

Se l’Europa è con l’acqua alla gola, ora il boomerang delle sanzioni colpisce anche gli Stati Uniti, scrive Piero Orteca su Remocontro. “Pesanti crolli alla Borsa di Wall Street. Nel 1º trimestre l’economia va in recessione (Pil -1,4%). L’inflazione resta elevata all’8,5%. Prezzi alla produzione ancora più alti (11,4%). E le sorti della guerra potrebbero non dipendere dalle rigidità di Putin o dalle oscillazioni incerte di Biden, ma essere decise dal mercato, con mezzo mondo in crisi e in rivolta”.

In pratica, spiega Orteca, tre potenti fattori depressionari si sono collegati, in rapida successione, sconvolgendo i mercati finanziari, produttivi e commerciali del pianeta. Nell’ordine, pandemia, interruzione della catena degli approvvigionamenti e guerra in Ucraina, hanno mostrato il lato più insidioso della globalizzazione. Che non è fatta solo di ricchezza che aumenta e si redistribuisce “asimmetricamente”, ma anche di problemi di mera sopravvivenza, che toccano la grande massa dei diseredati.

Effetti devastanti sugli equilibri sociali. Ma allora, fino a dove ci possiamo spingere?

“Anche perché, se non è chiaro quale sia il vero obiettivo del Cremlino, allo stesso modo, il “target” di Biden sembra cambiare tutte le mattine. Il Presidente Usa mette in difficoltà i suoi alleati. Prima chiedeva agli ucraini di resistere, ora invece vuole dal Congresso una barca di dollari (33 miliardi) per fare la guerra. Perché, come dice il Segretario alla Difesa, Lloyd Austin, questa è una buona occasione per far dissanguare la Russia in Ucraina, indebolirla e non permetterle più di fare (o ripensare) quello che ha fatto.

Nessuno vuole trattare

“Putin è il primo a non volere trattare, adesso, perché cerca una vittoria sul campo. Zelensky prova a salvare il salvabile e, comunque, dipende dalle strategie decise dagli americani. Biden e il suo “pensatoio”, invece, ormai vedono una “finestra di opportunità” e vogliono che la guerra continui. Sono sicuri di fare impantanare la Russia in un nuovo Vietnam europeo e per questo accelerano anche sul fronte delle sanzioni.

Ma i mercati non fanno sconti

Ma i mercati non fanno sconti e, soprattutto, non fanno politica. Nel senso che la logica che li guida è quella di una corretta applicazione dell’analisi costi-benefici, a tutti gli elementi che interagiscono in un sistema. Chi cerca vantaggi solo “per sé”, prima o dopo paga dazio. Non esiste più un mondo unipolare. E se gli Stati Uniti vogliono contrastare le soperchierie di Putin, devono ragionare anche con il resto del pianeta. Se no finiranno per spaccarlo. Avvelenare i pozzi di Putin, non significa solo mettere con le spalle al muro l’Europa, ma anche devastare gran parte del Terzo mondo.

A che prezzo l’ipotetico ribaltone a Mosca?

La Cina, per esempio, che deve fare i conti con un’ondata di ritorno della pandemia, sta già arrancando ed è costretta a rivedere al ribasso tutti i suoi tassi di sviluppo. Ma, fermo restando che l’incipit di questa tragedia contemporanea si trova al Cremlino, bisogna però ammettere che la Casa Bianca non mostra un approccio costruttivo. La linea diplomatica seguita è confusa e zigzagante, alternando inaccettabili rese pregiudiziali a pesanti minacce, espresse sincronicamente ogni volta che c’è la possibilità di riaprire le trattative.

Europa a rimorchio

Anche la politica europea, che ha camminato nel solco di quella americana, sembra più essere stata imposta, piuttosto che condivisa. La verità è che Biden non ha una strategia e che modella la sua (e quella dell’Occidente) su ciò che la Russia combina sul campo di battaglia. Dipendiamo, dunque, tutti da Putin? No, dipendiamo da un’altra cosa: i “mercati”, cioè l’economia o, per dirla più brutalmente, da quanti soldi avremo in tasca per poter vivere. Nessuno s’intenerisce a vedere i bambini che muoiono? E allora parliamo di soldi, che smuovono le montagne. Più dura la guerra e più le economie planetarie sprofonderanno.

Guerra per fame

Gli Stati Uniti, che già avevano un’inflazione “mostruosa” (per loro) all’8,5%, (addirittura + 11,4% alla produzione) venerdì hanno scoperto di essere in recessione. Al “Wall Street Journal” erano traumatizzati. Nel primo trimestre di quest’anno, l’America di Biden è andata sotto di quasi 1 punto e mezzo di Pil, rispetto all’ultimo trimestre del 2021. Ma lui ha programmato lo stesso, come ha detto Bernie Sanders, la vera anima progressista del Partito democratico, una spesa di 813 miliardi di dollari per la difesa.

Biden potrà far durare la guerra in Ucraina quanto vuole, ma così perderà le elezioni di Medio termine, aprendo la strada, tra due anni, a un Presidente Repubblicano. Chiuda invece questa guerra, costi quel che costi. E ridarà una speranza a se stesso, all’America e all’intero pianeta.


Alessandro Gilioli, giornalista di valore che seguo sempre volentieri sul web, (“Piovono rane”) per molti anni all’Espresso e attualmente a Radio popolare, scrive delle conseguenze di questa guerra, “tante di quelle nefaste che quella di cui scrivo qui non è la peggiore.

“Ci sono prima i morti, ovvio; e ci saranno subito dopo la fame di là del Mediterraneo, quindi nuove emigrazioni di massa, e da noi reazioni razziste che troveranno altra scintilla dalla contrazione economica – il tutto ammesso che ne usciamo vivi e con le città in piedi, ovviamente. Eppure tra i miei motivi di lutto e rabbia in queste settimane c’è anche un’altra cosa: il dissolvimento dell’Europa, del sogno europeo di Ventotene – e di quelli successivi.

“Un’Europa con una sua politica estera e capace di interpretare un suo ruolo autonomo rispetto alle altre tre potenze mondiali, Usa, Russia Cina.

Un’Europa lontanissima dal capitalismo di Stato con partito unico cinese e dall’autocrazia metafisica russa, ma anche diversa dal modello americano fondato sull’io contro te.

“Un’Europa in cui la democrazia non è solo facciata quadriennale dell’individualismo e della competizione ma anche corpi intermedi, tessuto sociale, moderazione verso gli eccessi delle disuguaglianze.

“Un’Europa caratterizzata da quello che più la contraddistingue da tutte le altre potenze, cioè il welfare, la pur parziale redistribuzione pubblica di benessere e dignità.

L’appiattimento dell’Europa sugli Stati Uniti, da febbraio in poi, ha spazzato via tutto questo.

“Esiste la Nato. Ed esiste la Super Nato dei 40 Stati che si sono ritrovati a Ramstein – molti dei quali dittatoriali e lontani da noi non meno del modello russo o di quello cinese.

È l’Europa che non esiste più. Per chi è cresciuto nella speranza del modello Europa è un lutto, credo.


“Giornalismo, ‘verità’, ordinamento professionale” era il tema del convegno promosso dalla Fondazione Paolo Murialdi che si è svolto giovedì 28 aprile nel salone della Fnsi.

Tanti i temi – dal precariato alle querele bavaglio, dall’accesso alla professione alla formazione – affrontati nel corso dei lavori aperti dalla presidente della Fondazione e dell’Inpgi, Marina Macelloni. Numerosi i relatori, moderati dal segretario della Murialdi, Giancarlo Tartaglia e coordinati da Vittorio Roidi, presidente del Consiglio di disciplina dell’Ordine del Lazio.

«Stiamo attraversando oggi una transizione al digitale che non è pensabile affrontare con gli strumenti previsti da leggi vecchie come la 416 del 1981 o la legge istitutiva dell’Ordine che ha ormai 60 anni. Ma fare le riforme in questo Paese non è facile», è la premessa del segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso.

«Stiamo ancora parlando di professionisti e pubblicisti – prosegue – in un’epoca in cui in redazione sono entrati gli algoritmi. Serve un cambio di passo nell’organizzazione del lavoro, ma per fare questo occorre un confronto con gli editori che al momento manca. Dalla crisi non si esce svuotando le redazioni con i pensionamenti anticipati e facendo in modo che l’informazione venga sempre più affidata a chi non ha diritti. Non possiamo consentire che il modello produttivo si basi sul precariato dilagante, perché il precariato è un acceleratore della disgregazione del settore, nuoce alla qualità dell’informazione, indebolisce la democrazia».

L’appello, dunque, è alla categoria e alle sue istituzioni, ma anche agli editori e alla politica. Il tema è la tenuta della democrazia. «Servono interventi e regole che diano garanzie al settore dell’informazione e a chi vi lavora. Serve un intervento pubblico, servono investimenti, serve includere nel perimetro dei diritti chi nel mondo del lavoro già opera, ma senza tutele», conclude Lorusso.

Il futuro del giornalismo deve coinvolgere cittadini, università, le aule del Parlamento, per poter giungere a delle proposte per superare la crisi

A Vittorio Roidi il compito di mettere in fila le questioni cruciali per il futuro del giornalismo, che «in primo luogo – ammonisce – non può e non deve essere una questione solo dei giornalisti, ma deve coinvolgere cittadini, università, le aule del Parlamento, per poter giungere a delle proposte per superare la crisi». Ne ha per tutti, il presidente del Consiglio di disciplina dell’Ordine del Lazio: un esame di Stato anacronistico, editori poco attenti alla qualità della “merce” che producono; una formazione che «praticamente esclude le università», vincoli legislativi al diritto di cronaca e alla capacità di intervento dei Consigli di disciplina.

Anche per il presidente del Cnog, Carlo Bartoli, «la legge istitutiva va ammodernata, dobbiamo fare – dice – un salto nel presente e, perché sia efficace, dobbiamo costruire una riforma che si basi su norme e cultura nuove e condivise e questo lo possono fare solo tutti i soggetti mettendosi insieme». Il punto, osserva, «non è che futuro dare a giornalisti e imprese editoriali, ma sapere cosa vuole fare questo Paese di se stesso: il futuro delle nazioni si gioca su dati e informazioni e l’Italia da questa partita sembra essersi tirata fuori».

Una informazione «seria e corretta è un diritto fondamentale dei cittadini, un interesse nazionale, un bene pubblico da tutelare, difendere e sostenere» è la riflessione da cui parte il sottosegretario all’Editoria, Giuseppe Moles. «Il settore dell’editoria – aggiunge – è in crisi da anni, ma c’è una buona notizia: la buona informazione è sempre più richiesta. C’è ancora un ruolo fondamentale che giornali e giornalisti possono svolgere».

Ricordando alcuni degli interventi messi in campo dal governo a sostegno del settore, il sottosegretario auspica quindi che «giornalisti, editori, istituzioni, filiera lavorino insieme alla creazione di un nuovo modello di sostenibilità economica, ridefinendo il prodotto giornalistico e l’organizzazione del lavoro, andando incontro alle esigenze dei cittadini e al loro bisogno di notizie vere e certificate». Il governo, conclude, «non è sordo alle sollecitazioni del mondo dei giornalisti, la cui attività di mediazione è fondamentale e insostituibile».

Presente al convegno anche il sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto. «Riformare la professione giornalistica mettendo al centro i cittadini, il loro diritto ad essere informati ma anche il rispetto delle dignità delle persone», la sua posizione. «I cittadini – spiega – sono il motore economico del mercato dell’informazione. Se oggi i giornali non vendono forse è anche perché serve una ristrutturazione dei modelli organizzativi di business e di lavoro, nuovi percorsi formativi in grado di ridisegnare la figura dei giornalisti, di prepararli meglio a informare in modo corretto i lettori».

Politica e istituzioni, rileva fra l’altro Sisto, possono contribuire alla riforma del settore «interfacciandosi con l’Ordine professionale, dando disponibilità ‘fisica’ a risolvere i problemi. Credo sia utile lavorare sulla riduzione del penalmente rilevante e su altri temi concreti per piccoli passi. Meglio poche regole, ma chiare».

E in merito alle nuove norme sulla presunzione di non colpevolezza, «un provvedimento di grande civiltà, adottato nell’ottica del doveroso bilanciamento del diritto dei giornalisti ad informare con altri diritti garantiti alle persone dalla Costituzione», scandisce il sottosegretario, che conclude ribadendo la necessità di «offrire informazione di qualità fin dalla scuola, e la qualità dipende dall’eticità dell’informazione».

A seguire l’intervento di Ferruccio De Bortoli, già direttore del Corriere della Sera, che si sofferma sul rapporto tra responsabilità editoriale, regole e trasparenza, «questioni – osserva – che la categoria ha sempre dibattuto. Cambiano le tecnologie, ma i temi di fondo sono gli stessi: quando la libertà sconfina nel disordine e dove non ci sono regole non c’è vera libertà d’informazione».

Mentre Michele Mezza, pone l’accento sulla rivoluzione innescata il 24 febbraio, giorno dell’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe: «Da allora – osserva – i giornalisti sono una categoria embedded perché tutti i nostri strumenti professionali oggi sono “sistemi d’arma”. Allora il Paese deve dire alla categoria se e quanta autonomia, trasparenza e potenza di interlocuzione vuole avere in ambito internazionale scegliendo a che livello collocare il lavoro artigiano del giornalista nel processo di automatizzazione industriale dell’informazione». Se i giornalisti vogliono ancora avere un ruolo nella ricerca della verità, chiosa, «il loro ruolo deve essere quello di rinegoziare gli algoritmi, minuto per minuto».

Raffaele Fiengo, del Comitato scientifico della Fondazione, ripercorre le iniziative messe in campo negli anni dalla Murialdi. A Giampiero Spirito, presidente della Fondazione Casagit, il compito di riassumere la nuova realtà della Cassa. Giulio Gambino, direttore di The Post Internazionale, torna sul ruolo centrale dei lettori/cittadini nel presente e nel futuro della professione. Guido D’Ubaldo, presidente dell’Odg Lazio, ammonisce che «i giornali non si salvano con i prepensionamenti, i giornali si salvano con la qualità dell’informazione e facendo crescere la preparazione dei giornalisti». 

In chiusura le riflessioni di Giancarlo Tartaglia, che ricorda come «nella storia lo sforzo del sindacato è stato sempre quello di adeguare le tutele e i diritti dei lavoratori all’evoluzione della professione, la sfida – conclude – è ora quella di allargare lo sguardo e creare una nuova alleanza fra tutte le parti in causa per dare contorni nuovi a una professione che deve rivoluzionarsi ripartendo da se stessa».


I migliori creano dipendenza

“La spaccatura della destra ci salverà (forse) da un governo di destra, scrive Massimo Marnetto commentando la tre giorni di FdI, per le prossime elezioni politiche, l’ascesa di Fratelli d’Italia inizia a preoccuparmi, ma c’è da tener conto dell’effetto sorpasso. Ovvero il cambio di leadership tra Meloni in ascesa e Salvini in caduta. La competizione tra i due non accenna a diminuire, come è emerso dallo scambio di scortesie alla mega-convention di FdI. Svoltasi a Milano, ”la stessa città dove è nato il fascismo”, come ha ricordato Feltri suscitando il boato liberatorio in sala di chi si sentiva da troppe ore costretto nelle scarpe strette del conservatore.

Spaccature ci sono anche a sinistra. I 5 Stelle sono in sofferta transizione da movimento ”vaffa e arraffa” con oltre il 30 per cento, a partito di sinistra Conte-nto della metà; il PD è bloccato dall’impossibilità di liberarsi dei renziani interni e tormentato dal randagismo di Italia Viva nelle periferie della destra, mentre Calenda fa da anticoagulante a un campo largo che preveda anche i grillini. Il rischio di instabilità del prossimo governo è altissimo. Il che significa una politica sempre in cerca di un tecnico dietro cui ammucchiarsi. Ci vorrebbe un cartello in Transatlantico: ”Attenzione: i Migliori creano dipendenza”


  • Mai tanti morti tra i civili, donne e bambini, come a Gaza
    …e nel Tg1 delle 13 le aperture su Gaza, con poco rispetto dell’attualità, riguardavano ancora oggi le malefatte e le minacce di Hamas e soltanto dopo cronaca e immagini di stragi e macerie procurate dall’invasione israeliana. Ma l’esodo forzato dei palestinesi inseguiti dai carri armati israeliani verso l’Egitto non può che riportare alla mente quello negli stessi luoghi degli ebrei inseguiti dai carri del Faraone. Forse Israele non riuscirà a distruggere Hamas, ma è già riuscito a distruggere Gaza. (nandocan)
  • COP 28 a Dubai
    ”Il petrolio non è responsabile dei danni all’ambiente”. “Ci vuole più atomo per salvare il pianeta”. Con questi due clamorosi proclami si chiude la COP 28, a Dubaii. Un mastodontico summit che – invece di entrare nel merito dell’abbattimento delle emissioni di CO2 – ha lanciato una sorta di ”negazionismo camuffato”. Quel pensiero che non rigetta il problema (surriscaldamento), di cui anzi si mostra preoccupato; ma ne elude la soluzione agendo sulla negazione delle cause (combustione fossili) e alterazione dei rimedi (nucleare), per evitare cambiamenti radicali (drastica riduzione dell’energia da fonti fossili).
  • A che punto è la notte
    Come sentinelle abitiamo la notte di quest’epoca. Sapendo che la notte non è per sempre e l’alba arriverà. E sapendo, soprattutto, di non sapere quando arriverà.
  • Crosetto o scherzetto?
    Per il Ministro Crosetto, Halloween continua e così si diverte con uno scherzetto alla magistratura. La tecnica è quella solita della destra: scegliere di colpire i giudici a freddo; evocare come reale una presunta attività eversiva delle toghe con la formula‘’mi dicono che’’ senza citare fonti e fatti.
  • BBC mostra i resti di Gaza, li studia e li analizza, ed è racconto dell’orrore
    Quasi 100 mila edifici distrutti o danneggiati in tutta la Striscia di Gaza (la maggior parte nel Nord) dall’inizio dei bombardamenti israeliani. Questa, la tragica e scioccante contabilità, che emerge dal dettagliato report satellitare commissionato dalla BBC. Mentre le condizioni umanitarie fanno temere una seconda strage con devastanti epidemie.
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