Reader’s – 17 maggio 2023.

Rassegna web di nandocan magazine


La RAI dei partiti. Della decisione di Fabio Fazio di lasciare la RAI dopo quarant’anni di buone e ben remunerate prestazioni si è occupato Il Reader’s di lunedì scorso ma merita oggi di tornare, sia pure indirettamente, sulle polemiche a cui ha dato luogo con le considerazioni che seguono di Gilberto Squizzato, che nel suo blog invita – opportunamente secondo me – i commentatori a non perdere di vista il quadro di riferimento di questo come di altri infortuni del servizio pubblico. (nandocan)

Per favore, niente lacrime e strepiti

di Gilberto Squizzato*

Sono passati 27 anni da quando Romano Prodi, il 18 maggio 1996, sconfisse Silvio Berlusconi e diventò per la prima volta Presidente del consiglio (il suo vice era Walter Veltroni). Da allora ad oggi la sinistra è stata al governo per almeno una quindicina di anni ma non si è mai data cura di mettere la RAI al riparo dalle interferenze dei partiti rendendola un vero “servizio pubblico” radiotelevisivo (e oggi dovrebbe essere anche un servizio digitale-WEB) affidandone la gestione a un ente terzo, indipendente, pluralista, di alto livello culturale.

Neanche la tempestiva proposta di Beppe Giulietti, entrato in Parlamento dopo essere stato segretario del sindacato dei giornalisti Rai, di trasformare la RAI in una fondazione indipendente svincolata dalla prepotenza del sistema dei partiti fu mai presa seriamente in discussione dalla sinistra.

La sinistra ha continuato imperterrita e imprudente, per nulla lungimirante, a contrattare nomine, incarichi e promozioni, e quando ha potuto li ha decisi a maggioranza. Non dico che non abbia scelto anche persone di valore, ma sbagliato era, allora come oggi, il sistema di governo della RAI.

E aggiungo: quante persone di valore non sono state scelte per i vertici RAI perché non appartenenti alla ristretta cerchia degli amici (o dei “graditi”) dei vertici di PDS/DS/PD? Eppure di tempo ce ne sarebbe stato per una vera riforma!

Se la destra-destra fa della RAI il proprio bottino…

Perciò se oggi la destra-destra fa della RAI il proprio bottino procedendo a vistose epurazioni e preparandosi a nomine che saranno scandalosamente di parte, la sinistra non ha di che lamentarsi. Anche solo per cinico calcolo politico, le regole si devono fare quando si vince pensando che non si sarà sempre dalla parte dei vincitori.

PS. Vale la pena di ricordare che molti dei personaggi ai quali la RAI con i suoi potenti mezzi di produzione e diffusione ha conferito notorietà e valore di mercato non hanno mai voluto diventarne dipendenti, preferendo contrattare da “esterni” (con il patrocinio di potenti manager dello spettacolo delle cui scuderie fanno e facevano parte) i propri cachet. Alcuni conduttori una volta diventati molto famosi hanno anzi preferito licenziarsi dalla RAI per allestire proprie società esterne e venderle le proprie trasmissioni.

In regime di mercato

Non dico che non siano bravi professionisti, ma hanno scelto loro di operare “in regime di mercato”. Perció neppure loro, quando sono messi alla porta, hanno nulla di che lamentarsi. E anche quando elegantemente non si lamentano e trasmigrano su altri canali , il popolo di sinistra non può vederli come ingiuste vittime sacrificali dei vincitori di destra che li mettono alla porta.

Piuttosto che strapparsi le vesti ed emettere patetici piagnistei il PD e tutta la sinistra (5S compresi, visto che hanno avuto per lunghi anni anche la presidenza della Commissione di Vigilanza sulla RAI) si impegnino non per mantenere piccoli orticelli e salvare qualche amico (utile e fedele) ma per una vera riforma del servizio pubblico.

E a chi si chiede che cosa potrà/dovrà fare oggi la sinistra per parlare ai cittadini, visto che non potrà più godere nella RAI occupata dalla destra della rendita di posizione che le garantiva visibilità e un diluvio di ospitate, è ovvio rispondere : dovrà tornare nelle piazze, nelle scuole, nelle fabbriche e imparare a muoversi efficacemente in rete. Un’epoca è finita.

*Il libro di G.Squizzato “La tv che non c’è” edito da Minimum Fax risale al marzo 2010


Ripudiare la pace e giocare a scacchi con la morte

di Domenico Gallo

Dal ripudio della guerra, lascito della Resistenza, siamo passati al ripudio della pace. Sullo sfondo l’apocalisse nucleare

1. La Costituzione cancella lo jus ad bellum dall’ordinamento giuridico

L’annunzio di pace della Resistenza è stato fatto proprio dai Costituenti che, con votazione quasi unanime, hanno decretato la cancellazione dello jus ad bellum dalle prerogative della sovranità espellendo la guerra, non dalla storia (non avrebbero potuto), ma almeno dall’ordinamento giuridico.

Qui la Costituzione opera un’innovazione decisiva rispetto allo Statuto albertino, invadendo il campo della politica estera, che le Costituzioni dell’Ottocento avevano sempre considerato dominio riservato del sovrano. E lo fa gettando sul piatto il peso di valori e princìpi (il ripudio della guerra e la costruzione della pace e la giustizia fra le Nazioni) di grande spessore politico e morale, attraverso i quali viene costruita l’identità della Repubblica, il volto dell’Italia nelle relazioni internazionali.

Non a caso nel testo dell’art. 11 compare il termine “Italia”, per indicare che il ripudio della guerra è un bene originario che appartiene allo Stato-comunità, di cui lo Stato-apparato non può disporre. L’apertura alla Comunità internazionale viene sancita stabilendo la supremazia del diritto internazionale generale sull’ordinamento interno («L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» art. 10) e consentendo le limitazioni di sovranità necessarie «ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» (art. 11).

Le limitazioni di sovranità non possono scalfire il nucleo duro della Costituzione

È stato proprio questo principio che ha costituito la porta attraverso la quale l’Italia è entrata in Europa e l’Europa è entrata in Italia attraverso la costruzione della Comunità/Unione Europea. Tuttavia le limitazioni di sovranità, anche se possono raggiungere livelli molto intensi, espropriando il Parlamento del potere di adottare le norme di legge riservate alla legislazione comunitaria, non possono scalfire il nucleo duro della Costituzione, quello che non può essere neppure sottoposto al potere di revisione costituzionale, vale a dire i princìpi fondamentali e i diritti inalienabili della persona umana (Corte costituzionale, 19 novembre 1987, n. 399).

Il ripudio della guerra è riconosciuto dalla dottrina giuridica come uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale ed è quindi annoverabile tra quelli che prevalgono su ogni eventuale vincolo internazionale, da qualsiasi fonte provenga (trattato, decisione di organi internazionali di cui facciamo parte, Comunità europea). Come tale dovrebbe se del caso essere garantito, se violato, dalla giurisdizione costituzionale e non può essere oggetto di revisione costituzionale. (continua)


India, la ‘Cina+1’ del futuro: la nuova fabbrica del mondo

Piero Orteca su Remocontro

L’Occidente cerca una nuova ‘fabbrica del mondo’, quella che gli esperti hanno definito ‘la Cina +1’. Una nazione capace di sostituire o di affiancare il colosso asiatico, nel suo ruolo di ‘motore’ della catena globale di approvvigionamento produttivo.
Ma c’è ancora tempo: l’economia di Pechino è quasi sei volte più grande di quella dell’India.

Oltre la Cina, la nuova ‘fabbrica del mondo’

La posizione quasi monopolistica di Pechino, sui mercati internazionali, per alcune materie prime e certi semilavorati, conferisce alla Cina un enorme potere contrattuale. Quasi una forza di ricatto economico. E sintetizzando molto, dalla‘guerra dei microchip’ in poi, l’Occidente ha preso coscienza che bisognava bilanciare il peso straripante della Cina come fornitore‘monopolistico’ di alcuni fattori della produzione tra materie prime e costo del lavoro. E qui entra in ballo il nostro convitato di pietra di oggi: l’India.

India contrappeso a Pechino

È l’India la mitica ‘Cina+1’? I presupposti ci sono tutti, anche se c’è una forte differenza, tra la velocità di crescita del sistema-paese indiano e le immediate esigenze del mercato internazionale. Altre nazioni come Messico, Vietnam, Malesia Thailandia si sono inserite, ma le dimensioni delle loro economie non sono certo in grado di offrire una alternativa ai prodotti cinesi. E la speranza dell’Occidente è che l’India aumenti la sua capacità produttiva e, soprattutto, il volume dell’export di semilavorati e beni durevoli ad alto valore aggiunto.

India sì, India ma

Principale problema attuale, sottolineano le analisi dalla Banca mondiale, è la scarsa qualificazione media dei suoi lavoratori. Che si coniuga, negativamente, con l’utilizzo ancora troppo limitato di tecnologie avanzate nei processi produttivi. Tanto che l’industria manifatturiera, nel 2021, ha esportato 10 volte meno della Cina. Esistono però delle aree di eccellenza, come quelle dell’elettronica e della telefonia, dove l’India sta compiendo dei progressi formidabili. Tanto che grandi aziende occidentali hanno deciso cospicui investimenti. In questo settore, in soli 4 anni, le esportazioni sono triplicate fino a 23 miliardi di dollari l’anno.

Gli iPhone da cinesi a indiani

Un caso emblematico è quello della Apple, la cui presenza ha avuto un poderoso effetto moltiplicatore su tutta l’economia cinese ad alta tecnologia. Adesso sta avvenendo la stessa cosa in India, dove l’azienda californiana pensa di produrre il 25% di tutti i suoi iPhone entro il 2025. Naturalmente, uno sforzo di questo tipo, che tocca tutti i settori dell’economia, dev’essere accompagnato da un necessario adeguamento dei servizi offerti alle imprese. In parole povere, va aggiornata la spina dorsale dell’amministrazione statuale.

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