Reader’s – 16 maggio 2022 (rassegna web)

Antonio Ciotiani

Se il mondo è buio, si perderà la bellezza e governerà la paura. Questo il titolo di un testo apparso su Remocontro quasi cinque anni fa. Prima della pandemia, prima della guerra nel cuore dell’Europa, prima della deriva bellicista che furoreggia nelle nostre istituzioni e dilaga nell’armamentario mediaticamente nelle arene dell’informazione spettacolare.

Anche se, a dire il vero, la tendenza era già abbastanza delineata. Per questo, nel Polemos di questa domenica, ripropongo le parole di quella analisi. Per riflettere su tutto quello che stiamo perdendo, sulla tragedia della nostra epoca così assuefatta alla ferocia talmente levigata da sembrare necessaria. Ecco frammenti di quel testo.

Il fallimento per tutti noi risiede nelle semplificazioni delle risposte già date, che annullano il fuoco della domanda, laddove si erigono i monumenti alla bruttezza del tempo, al razzismo, alla xenofobia, all’accettazione passiva delle ingiustizie e delle guerre, ma anche alle piccole azioni di stupidità e ferocia che appartengono a questa epoca. Il fallimento etico di tutti noi ha come contrappeso la vittoria schiacciante di un sistema che oggi si impone come immutabile. Talmente indiscutibile da sembrare emanazione divina. Che prevede il sacrificio di massa degli ideali di intere generazioni, spente nell’attesa di essere inseriti in un gioco di ruolo che mortifica e tiene in vita, nella trasformazione di vite in vite precarie, ricattabili, fragili.

Con una chiarezza incredibile ha detto Simone Weil, grande filosofa e mente sovversiva del Novecento, che gli oppressi di ogni tempo e luogo, umiliati e offesi, non sono in grado di interpretare il tempo e di agire per il cambiamento epocale: “Questo sentimento abita dentro di loro, ma giace così inarticolato che essi stessi non sono in grado di discernerlo”. Scrive Nicola Lagioia spiegando questo concetto: “L’esempio portato dalla Weil è quello del ladruncolo semianalfabeta che balbetta intimidito davanti al giudice, il quale, seduto comodo sopra il suo scranno, è pronto a colpirlo col maglio di una legge consustanziale al mondo che l’ha portato a errare. Se le vittime della violenza – anche di quella istituzionalizzata – non hanno voce, a propria volta, quasi immancabilmente, ‘i professionisti della parola sono del tutto incapaci di dargli espressione’ dal momento che i loro privilegi (i gerani della sovrastruttura) si fondano sullo stesso potere che è l’origine della violenza. Quando il ceto intellettuale sta difendendo pubblicamente gli ultimi, non sta forse, nove volte su dieci, lottando per ribadire la propria forza?

Utile ricordare che Simone Weil scriveva tra le due guerre del Novecento (è morta nel 1943). Riflettendo sulla dipendenza dell’individuo dal lavoro sempre più specializzato che tende a diventare soggezione al potere. Da quegli anni a oggi, l’analisi di Weil è diventata una realtà talmente evidente e immutabile da essere considerata accettabile e indiscutibile. Niente più è a misura d’uomo, niente più agisce nell’etica del discorso pubblico, in cui l’uomo di parola ha un valore. La società è una collettività cieca, obbediente nel mantenere e aumentare i propri squilibri a proprio discapito, “una macchina per comprimere cuore e spirito e per fabbricare l’incoscienza”.

Ecco, a questo punto siamo. Nella fabbrica dell’incoscienza.

Se il mondo è buio, si perderà la bellezza e governerà la paura. Questo il titolo di un testo apparso su Remocontro quasi cinque anni fa. Prima della pandemia, prima della guerra nel cuore dell’Europa, prima della deriva bellicista che furoreggia nelle nostre istituzioni e dilaga nell’armamentario mediaticamente nelle arene dell’informazione spettacolare.

Anche se, a dire il vero, la tendenza era già abbastanza delineata. Per questo, nel Polemos di questa domenica, ripropongo le parole di quella analisi. Per riflettere su tutto quello che stiamo perdendo, sulla tragedia della nostra epoca così assuefatta alla ferocia talmente levigata da sembrare necessaria. Ecco frammenti di quel testo.

Il fallimento per tutti noi risiede nelle semplificazioni delle risposte già date, che annullano il fuoco della domanda, laddove si erigono i monumenti alla bruttezza del tempo, al razzismo, alla xenofobia, all’accettazione passiva delle ingiustizie e delle guerre, ma anche alle piccole azioni di stupidità e ferocia che appartengono a questa epoca. Il fallimento etico di tutti noi ha come contrappeso la vittoria schiacciante di un sistema che oggi si impone come immutabile. Talmente indiscutibile da sembrare emanazione divina. Che prevede il sacrificio di massa degli ideali di intere generazioni, spente nell’attesa di essere inseriti in un gioco di ruolo che mortifica e tiene in vita, nella trasformazione di vite in vite precarie, ricattabili, fragili.

Con una chiarezza incredibile ha detto Simone Weil, grande filosofa e mente sovversiva del Novecento, che gli oppressi di ogni tempo e luogo, umiliati e offesi, non sono in grado di interpretare il tempo e di agire per il cambiamento epocale: “Questo sentimento abita dentro di loro, ma giace così inarticolato che essi stessi non sono in grado di discernerlo”. Scrive Nicola Lagioia spiegando questo concetto: “L’esempio portato dalla Weil è quello del ladruncolo semianalfabeta che balbetta intimidito davanti al giudice, il quale, seduto comodo sopra il suo scranno, è pronto a colpirlo col maglio di una legge consustanziale al mondo che l’ha portato a errare. Se le vittime della violenza – anche di quella istituzionalizzata – non hanno voce, a propria volta, quasi immancabilmente, ‘i professionisti della parola sono del tutto incapaci di dargli espressione’ dal momento che i loro privilegi (i gerani della sovrastruttura) si fondano sullo stesso potere che è l’origine della violenza. Quando il ceto intellettuale sta difendendo pubblicamente gli ultimi, non sta forse, nove volte su dieci, lottando per ribadire la propria forza?

Utile ricordare che Simone Weil scriveva tra le due guerre del Novecento (è morta nel 1943). Riflettendo sulla dipendenza dell’individuo dal lavoro sempre più specializzato che tende a diventare soggezione al potere. Da quegli anni a oggi, l’analisi di Weil è diventata una realtà talmente evidente e immutabile da essere considerata accettabile e indiscutibile. Niente più è a misura d’uomo, niente più agisce nell’etica del discorso pubblico, in cui l’uomo di parola ha un valore. La società è una collettività cieca, obbediente nel mantenere e aumentare i propri squilibri a proprio discapito, “una macchina per comprimere cuore e spirito e per fabbricare l’incoscienza”.

Ecco, a questo punto siamo. Nella fabbrica dell’incoscienza.

I giorni della morte in faccia

Alberto Negri con il fotoreporter Gabriele Micalizzi, reduce dal Donbass e da Mariupol. «Ha cominciato con l’amico per la pelle Andy Rocchelli, ucciso a 30 anni mentre documentava il conflitto. Le centinaia di vittime per le strade, lo scempio del teatro bombardato dai russi. La testimonianza di tre mesi vissuti a raccontare solo con la telecamera e la macchina fotografica». Negri anticipa sul Manifesto il racconto di una guerra che, come sanno quelli che ne hanno frequentato qualcuna da vicino, offre più ombre che chiaro e scuri netti. Più dubbi che certezze.

Il fotgoreporter Gabriale Micalizi

Nel Donbass e a Mariupol, i giorni della morte in faccia

«Ho la guerra in faccia. Quella dell’ultimo inviato che ho conosciuto. Mi dice di parlare più forte perché da quell’orecchio non sente più, per una granata che gli è scoppiata a Baghuz, Siria, l’ultima roccaforte dell’Isis.
Anche un occhio, per la stessa granata, non è messo bene: “Mi sembra di vederti – dice mettendo una mano sull’occhio destro – come frantumato in mille pixel”.
Ma l’altro occhio, quello buono, e soprattutto il terzo, quello dentro l’anima, ci vede benissimo. Si chiama Gabriele Micalizzi e per tre mesi ha mandato a La7 gli unici reportage al mondo da Mariupol e dal Donbass».

Vecchio cronista non proprio in disarmo

Come qualunque vecchio cronista in disarmo cerco di rubargli delle informazioni. Niente da fare. È più furbo di me. Ma vengo travolto dalle emozioni, le sue, che sono attuali, e le mie, che sono i ricordi dell’Oltrepò, dell’infanzia e di altre guerre».
Perché Gabriele ha cominciato lì, a Pianello Valtidone, con Andy Rocchelli, terra di partigiani e giornalisti. Erano insieme in società. Amici per la pelle. La Corte d’Assise, come sapete, ha assolto il soldato ucraino Vitaly Markiv, condannato in primo grado per la morte di Rocchelli, ucciso a 30 anni mentre documentava il conflitto in Donbass.

Dal ‘lato sbagliato’ della storia

Gabriele, come Andy. è andato dal lato “sbagliato” della storia, quello che qui non si vuole mai sentire. «Questa guerra non è come la raccontano, è più complessa, più sfumata: i russi a Mariupol sono entrati sparando ma anche portando aiuti e spegnendo gli incendi: se racconti questo ti dicono che sei filo-Putin, preda della propaganda di Mosca: racconto soltanto con la mia telecamera quello che vedo e poi che ognuno la pensi come vuole».

Non il giusto o lo sbagliato

Micalizzi non ti dice che cosa è giusto o sbagliato. «Non c’è il giusto o lo sbagliato, c’è la cruda realtà dei fatti e dei numeri». Ti riporta con i piedi per terra. Entro con lui nel teatro di Mariupol. Vedo nelle sue immagini le colonne sbreccate, l’intonaco già depositato per terra che nei suoi fotogrammi galleggia ancora nell’aria.
Non è un miracolo, è l’orrore della guerra. Lui ci restituisce questo: il fumo, la nebbia impenetrabile che esplode nei muri, la polvere che precipita e i cadaveri che ci compaiono davanti come manichini. Il respiro strozzato in gola dalla paura. Le immagini sono a colori, a tutto mi sembra in bianco e nero.
Oppure di un grigio indecifrabile. L’umanità crea da sempre l’arte ma allo stesso tempo anche la fine dell’uomo: l’inviato di guerra vede mille cadaveri che sono anche il suo cadavere, quello dei suoi antenati e dei suoi figli.

L’ultima sigaretta

«A Baghuz non vedevo più nulla, pensavo che sarei rimasto cieco, ma cercavo in tasca le sigarette, non riuscivo a muovere le dita, che ancora adesso non si piegano, tentavo di afferrare il pacchetto ma mi scivolava sempre di mano, ero furibondo, non volevo morire senza fumare l’ultima sigaretta».
Vietato fumare? Già questo è lo spartiacque tra la vita e la morte: non vogliamo radiografie polmonari ma una pietosa complicità. Fino all’ultimo ironico respiro.

Tra bombe e cadaveri

Fuori dal teatro di Mariupol i russi bombardano a più non posso. Gabriele cerca i cadaveri. Li conta, si informa, fino all’ultimo, quanti potrebbero essere: duecento, seicento? Riprende con la telecamera le bombe inesplose, cammina su brandelli di corpi, cerca, esplora.
Potrebbe non uscire mai più da lì sotto. Bastano l’onda d’urto di una bomba, le schegge di una granata e tutto intorno crolla, diventando l’ultimo posto che hai visto nella tua vita. Come è accaduto a Andy, in un colpo secco. Ma lui, Gabriele, va avanti. Dieci, venti, trenta cadaveri: corpi di sconosciuti dove cerchi una traccia, dei brandelli di verità.

E attorno la scommessa delle vita

Spero, mentre racconta, che Gabriele mi porti fuori presto da questa buca di Mariupol dove mi ha portato, come ha condotto tutti noi in questi mesi con i suoi reportage. Ma non è finita. Mi prende per mano a guardare l’orizzonte dove ci sono altri cadaveri.
Me li mostra ma mi fa vedere anche i vivi, che tagliano legna, fanno bollire pentole di zuppa, donne e uomini che camminano sulle macerie delle loro case, che piangono e imprecano.
O soltanto, con una lucidità a noi sconosciuta, raccontano la realtà del momento senza versare una lacrima.

Vincitori e vinti

Gabriele mi fa capire che qui non ci sono vincitori e vinti. Ma non vuole essere banale, tenta di spiegarmi le cose. L’altro ieri è venuto via da Mariupol dove spazzavano i cadaveri per la strade e gli ucraini residenti rabberciavano reti elettriche e telefoniche, sotto paga (e ordine) dei russi.
Mi racconta la sfilata del 9 maggio tra le strade della città dove i russi erano riusciti a trovare un angolo quasi intatto di Mariupol: «Cercavo di inquadrare una visuale della città distrutta e non ci riuscivo: sembrava una scenografia quasi intatta, surreale». La realtà si negava, ostinatamente, anche all’occhio elettronico di Gabriele. Siamo comunque esseri fallibili che cercano quello che non trovano.

Una vecchia canaglia

La verità, come diceva De André, è che a volte andiamo in direzione ostinata e contraria. Ma adesso c’è un treno che parte, abbiamo appena il tempo di raccontarci mille altre cose, di ricordare mille altre persone, e anche qualche minuto di commozione ricordando i morti di questo mestiere.

Ma Gabriele è anche una vecchia canaglia. L’ultimo bicchiere ed è già ora di andare. Ciao, ciao.

L’incontro

Kerry e Putin a Sochi di questi giorni incassa solo segnali: passi verso una lenta e non scontata normalità dei rapporti. L’anno prima faccia a faccia di Kerry con Putin e con Lavrov.

Uscì fuori che Usa e Russia erano concordi per le armi chimiche in Siria, per il contrasto all’Isis, sul nucleare iraniano, lo Yemen e la cooperazione nello spazio. 

L’inciampo  è l’Ucraina. Appello a Misk anche se è chiaro che qualcuno sul campo gioca sporco. 

E ora è GUERRA DEL PETROLIO

I prezzi globali del petrolio in discesa ovunque nel mondo con minori ricavi per miliardi in molti dei Paesi esportatori di energia. Un semplice aspetto commerciale? Quello del prezzo del petrolio è uno degli strumenti antichi di guerra non dichiarata e non direttamente cruenta ma decisamente feroce. Con svariate parti in campo, dalle consuete petromonarchie forcaiole del Golfo agli Stati Uniti del petrolio di scisto. Con una sola certezza oggi: il bersaglio. La Russia di Putin. Nel 1985 il prezzo del petrolio scese del 65%. Fu il colpo mortale per l’Unione Sovietica, dipendente dal petrolio.

Dal 2010 fino alla metà del 2014 i prezzi mondiali del petrolio erano stati abbastanza stabili, a circa 110 dollari al barile. Da giugno dello scorso anno si sono più che dimezzati. Il Brent greggio sceso sotto i 50 dollari al barile adesso (oggi) viaggia sui 68 dollari. Ragioni di questo cambiamento? La domanda debole in molti paesi a causa della crisi economica, insieme all’impennata di produzione statunitense. In una scelta antieconomica che coincide con la sovrapproduzione Usa, il cartello dell’ Opec e le petromonarchie alleate, hanno deciso di non tagliare la produzione per sostenere i prezzi.

Petrolieri del blocco occidentale improvvisi benefattori nel rilancio dell’economia mondiale? No. Altra chiave di lettura. La Russia perde circa 2 miliardi di dollari di fatturato per ogni dollaro di diminuzione del prezzo del petrolio, e la Banca Mondiale ha avvertito che l’economia della Russia si ridurrebbe di almeno il 0,7% nel 2015, se i prezzi del petrolio non recuperano. La Russia a sua volta non taglierà la produzione per non perdere clienti. Il calo dei prezzi del petrolio che colpisce di più delle sanzioni occidentali per l’impiccio Ucraina, con la Russia 2015 a rischio recessione.

La Russia è uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo e la sua economia dipende in gran parte dai ricavi sull’energia: petrolio e gas rappresentano il 70% delle esportazioni. Lo sapevano bene tutti alla più recente riunione OPEC in novembre a Vienna. Per la Russia c’era Igor Sechin, il direttore esecutivo della Rosneft -il più grande produttore di petrolio della Russia-, ex apparatchik KGB. Per l’Arabia Saudita il ministro del petrolio Ali al-Naimi. Erano lì per parlare di petrolio e non di guerra. Ma il petrolio è certamente un’arma per entrambe le nazioni, e uno stava per usarlo.

A quel tempo i prezzi del greggio erano attorno agli 80 dollari al barile, e tutto il mondo si aspettava una stretta nella produzione per far rialzare il prezzo a vantaggio dei produttori. E invece accade il contrario. L’Arabia Saudita è in grado di produrre più petrolio su base giornaliera di qualsiasi altro Paese, e può farlo al costo più basso per barile. Proviamo a dirla così: l’Arabia Saudita può sfidare qualsiasi nazione produttrice di petrolio al mondo in una immaginaria gara su ”chi può tenere più a lungo la testa sott’acqua senza respirare’. Più petrolio di tutti ai minori costi per estrarlo. Imbattibile

Costo medio della Russia per la produzione di petrolio, oltre i 40 dollari al barile, un po’ sotto la media globale di 50 dollari. L’Arabia Saudita, poco più di 20 dollari al barile! Industria petrolifera russa, in altre parole, è ancora in attivo, ma per un pelo, rendendo molto nervosi gli inquilini del Cremlino. I sauditi stanno colpendo due paesi in particolare: l’Iran, suo nemico mortale nel Golfo e quinto maggior produttore di petrolio del mondo, e la Russia, alleato dell’Iran sciita e sostenitore con Teheran del siriano Bashar Assad (sciita alawita), che i sauditi detestano e vogliono far cadere.

Gioco pesante. Con qualche rischio anche per Riyadh su una risposta da parte del Cremlino o di Teheran. E non nella forma di una nota diplomatica. Lo Yemen già qualcosa dice. Pesa anche il fatto ormai accertato di fondi sauditi (privati, dicono) a sostegno di ISIS in Iraq e in Siria mentre Teheran sostiene le milizie sciite contro il Califfato juadista sunnita. Gran confusione tra ‘buoni e cattivi’ con qualche malizia soprattutto a Washington rispetto alle Petromonarchie sunnite e alle loro ‘amicizie’ nella jihad . Con il petrolio che è ormai parte integrante di un mix altamente combustibile. Ovunque.

Il calo precipitoso del prezzo del petrolio ricorda il crollo dell’Unione Sovietica, innescato 30 anni fa da un forte calo del prezzo del petrolio. Nel 1985 il prezzo del petrolio scese del 65 per cento. Sei anni dopo, l’Unione Sovietica, fortemente dipendente dalle entrate petrolifere (come la Russia), ha cessato di esistere. Le differenze per il Center for Analytical del governo russo: ‘Le economie dei paesi arabi sono molto più dipendenti dal prezzo del petrolio rispetto a prima. Già a prezzi di 30, 40 dollari a barile, essi finiscono in gravi difficoltà’. E la Russia è forte entità nazionale e non ideologica.


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