Reader’s – 16 dicembre 2022. Rassegna web

Abbiamo molto da imparare dalle donne iraniane, scrive Marisa Nicchi nell’edizione di oggi del Centro per la Riforma dello Stato. La straordinaria rivolta e le manifestazioni di solidarietà della diaspora iraniana nel mondo segnano una netta distinzione rispetto alle proteste del passato. Stavolta le donne non solo hanno avviato il movimento, ma ne sono il motore trainante e ne rappresentano il fulcro simbolico e politico. Nonostante la furibonda reazione del regime che in pochi giorni, denuncia Amnesty International, ha già portato all’impiccagione di due giovani manifestanti.

Una rivoluzione femminista. Abbiamo molto da imparare

di Marisa Nicchi

Quella di queste settimane non è la prima ondata di protesta contro la Repubblica Islamica. Si ricordano bene le rivolte studentesche del 1999, la mobilitazione verde del 2009 e del 2017, e quella del 2019 per il carovita e il prezzo della benzina. Ciò che le accomuna è la repressione subita da un regime disposto a tutto pur di sopravvivere. Migliaia e migliaia di donne e di uomini, intellettuali, studenti, cineasti, giornalisti, artisti, lavoratori, hanno dovuto affrontare la morte, le persecuzioni, l’esilio.

La straordinaria rivolta, esplosa subito dopo l’assassinio della giovane curda Masha Amini, e le manifestazioni di solidarietà della diaspora iraniana nel mondo segnano però una netta distinzione rispetto alle proteste del passato. Le donne iraniane sono sempre state ben presenti nelle mobilitazioni a iniziare da quella contro l’obbligo dell’hijab appena due anni dopo la rivoluzione islamica. Stavolta non solo hanno avviato il movimento, ma ne sono il motore trainante e ne rappresentano il fulcro simbolico e politico.

Hanno cominciato, sempre più numerose, a camminare in modo pacifico, a viso scoperto e a mani nude per le strade di tante città – non solo a Teheran –, scandendo lo slogan “donna, vita, libertà”. Hanno affrontato la repressione del regime bruciando il velo obbligatorio, quelle che lo portavano per propria scelta, a loro volta, lo hanno strappato unendosi alla lotta, altre si sono tagliate i capelli o li hanno raccolti con un elastico. Gesti che sono stati messi in rete, senza timore, come sfida agli obblighi imposti per legge dalla teocrazia islamica. Gesti diventati simbolici e rilanciati da tante altre donne in ogni parte del mondo.

Con il loro esempio hanno coinvolto gli uomini

Sono le donne che per prime, partendo da sé, hanno dato la forma della lotta a un insopprimibile bisogno di libertà e hanno così, col loro esempio, coinvolto quegli uomini che sono scesi al loro fianco. Tutte e tutti sapendo di rischiare la vita. Come Mohsen Shekari e Majidreza Rahnavard, giovani di 23 anni condannati per muharebeh, per “inimicizia contro Dio”. Condannati senza processo, senza avvocati, dopo spietate torture. Altri giovani, alcuni minori, sono nella lista dei condannati a morte, anch’essi senza processo.

Il bilancio, a oggi, parla di oltre 500 morti, tra cui ragazzi e bambini, e di circa ventimila arresti. Macabri numeri destinati a crescere. La comunità internazionale non può rimandare azioni diplomatiche all’altezza della gravità di quanto sta accadendo, deve premere con ogni mezzo per impedire nuove esecuzioni e per ottenere un controllo indipendente sulle condizioni carcerarie.

La libertà delle donne questa volta è al primo posto. E questo è un fatto storico. Quel desiderio di vivere liberamente, sentire il vento tra i capelli, sorridere, cantare, ballare, baciarsi, è il segno di un cambiamento esistenziale avvenuto e irreversibile. Quando un desiderio di libertà e dignità si accende in modo così diffuso e consapevole, è impossibile reprimerlo. Tanto più quando si accende per le sofferenze accumulate in quarantaquattro anni di oppressione, e quando a esso si uniscono le frustrazioni subite dalle nuove generazioni private di ogni prospettiva. Questa generazione non ha vissuto lo sconvolgimento del ’79, né la guerra con l’Iraq (1980-1988), per l’Iran una guerra patriottica.

L’inganno delle promesse sociali

Si svela l’inganno delle promesse sociali della cosiddetta rivoluzione khomeinista, e restano invece l’oppressione delle minoranze etniche e religiose, la gravissima crisi economica e del welfare con le profonde diseguaglianze, la corruzione statale, manifestatasi anche nel recente crollo della torre Metropol, la crisi ambientale. Le mobilitazioni di queste settimane nascono da questo retroterra, ma il fulcro dirompente è la richiesta di autonomia e libertà delle donne iraniane che ha preso forme di lotta che continuano a stupirci e a chiamarci a un impegno solidale.

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Uscire dalla depressione che coglie tutti, a cominciare dal popolo della sinistra, di fronte agli avvenimenti di questo “anno orribile” si può, come ci invita a fare Giovanni Russo Spena nel secondo articolo che vi propongo dal sito del Centro per la Riforma dello Stato. “Bisogna ritrovare il gusto di mettersi in gioco, costruire iniziative diffuse, snodi di comunicazione tra movimenti di solidarietà che sfidano l’azzardo dell’autorganizzazione, pur all’interno di un complesso magma sociale e a fronte delle deboli, emarginate soggettività della politica”.

Praticare le cose impossibili. Insieme si può

di Giovanni Russo Spena

“Non per noi ma per tutte e tutti”: centinaia di realtà sociali e sindacali (tra queste il “Centro per la Riforma dello Stato” e i “Giuristi Democratici”) hanno tenuto assemblee territoriali in tutto il paese per organizzarsi contro una legge di bilancio classista, contro i poveri. Il 21 dicembre ci incontreremo in un presidio di massa a Roma per incalzare il Parlamento con le mille voci della protesta e della proposta alternativa.

La rete dei numeri pari

La “Rete dei Numeri Pari” non nasce oggi; ha, alle spalle, tempi di ricerca, mobilitazioni, conflitti,… È la drammatica crisi della rappresentanza. La Rete è uno degli importanti “laboratori” di iniziative sociali, confederazioni di conflitti e mutualismo, che contrastano, come possono, la politica separata, mercificata, borghese. Da un lato il politicismo autoreferenziale, dall’altro tentativi di autogoverno sociale.

È la sfida radicale contemporanea, non nostalgica, attenta a non farsi schiacciare e omologare da strutture oligarchiche che ridisegnano in direzione postdemocratica (e, spesso, eversiva) la trama dei moderni poteri globali. I quali stanno penetrando profondamente nelle culture, nell’informazione, nei corpi. I tempi della produzione si separano da quelli biologici, opprimono l’ecosistema, devastano rapporti affettivi, sessuali.

“fare società” e “autogestire la produzione”

Sono diverse le Reti costruite in questi anni che combattono, nei fatti ancor più che nella consapevolezza, alienazioni, mercificazioni, nuove schiavitù. Dietro la fitta trama di centinaia di associazioni, grandi e piccole, vi è un circuito che agisce la costruzione di nessi di coesione in una società di solitudini, frantumazione, spaesamento, dando forma al gramsciano “fare società”. Ovvero, esprime nei fatti un tema teorico e politico fondante: la realizzazione di una formazione sociale e di un modo di produzione imperniati sull’autogestione della produzione, sulla riappropriazione sociale del prodotto, sui valori d’uso. I “nuovi beni”, li chiamava Pietro Ingrao.

Fuoriuscire dall’economia del profitto

Porto un solo esempio. Penso che un punto alto di questa ricerca di un’identità anticapitalista sia la “bella” lotta dei lavoratori GKN, capaci di costruire, intorno alla loro aspra vertenza, un’insorgenza dell’intero territorio circostante, facendo da punto di riferimento di movimenti diversi e plurali: la liberazione del lavoro umano dal suo carattere di merce. La Rete dei Numeri Pari propone, per l’appunto, punti di vista “rovesciati”: la società della cura per fuoriuscire dall’economia del profitto. Penso alla scuola, alla formazione; alla retorica governativa del “merito”, a cui contrapporre le virtù perdute dell’eguaglianza, della solidarietà. Alla scuola delle “umiliazioni” contrapponiamo la scuola laica, repubblicana, costituzionale.

Alla istituzionalizzazione delle diseguaglianze (la “secessione dei ricchi” di Gianfranco Viesti), ai diritti differenti in base al domicilio, che deriveranno dalla cosiddetta “autonomia regionale differenziata”, contrapponiamo i primi 12 articoli della Costituzione. La Costituzione, infatti, allude, in ogni passaggio, alla giustizia sociale; viceversa l’autonomia secessionistica esalta l’orizzonte competitivo e apre la strada alle pulsioni presidenzialiste. Mentre evaporano ruolo e funzione del Parlamento.

La Rete ha elaborato progetti e proposte precise, collettivamente elaborate da “gruppi di contatto”, sulla fiscalità (le risorse vi sono, vanno redistribuite, ha insistito Maria Luisa Boccia), contro “tregue” fiscali e condoni, per gli extraprofitti tassati all’80 per cento; sul salario minimo; sul diritto all’abitare; sulla sanità; sull’antimafia sociale.

Reddito di base “indifferenziato”

Un impegno immediato che la Rete ha assunto è la lotta per il reddito di base, universale (anzi, meglio definirlo “indifferenziato”). Non è solo l’espressione del diritto all’assistenza. Il reddito di base contrasta i nuovi processi di accumulazione del capitale che mettono al lavoro la mente e il corpo (e l’anima) di ogni persona ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Le donne di “Non una di meno” ci indicano la strada: reddito di autodeterminazione – antipatriarcale, antirazzista, anticapitalista. Il Governo intende abbattere anche l’attuale, mediocre, confusa misura, che subordina il reddito di cittadinanza alla ricerca del lavoro. Noi ci battiamo affinché il reddito di base indifferenziato sia elemento di una produttività sociale alternativa.

Non c’è giustizia senza pace e disarmo

Infine, il tema che sottende ogni impegno, che non possiamo eludere, rimuovere. “Donna, vita, libertà”: in loro nome ragazze, giovani, madre e padri iraniani sfidano il regime teocratico, oscurantista. Non vi è libertà, liberazione dei popoli, non vi è giustizia senza pace. La pace non è solo assenza di guerra. È impegno quotidiano per il disarmo, anche unilaterale; per la diplomazia di base; per la cooperazione da popolo a popolo, per conferenze internazionali che traccino, attraverso tregue belliche, i percorsi di pace. Il ministro Crosetto, protagonista del complesso militare-industriale, così come l’italica Leonardo, vuole disseminare il mondo di armi. Non in nostro nome. Noi ci battiamo per la solidarietà, la convivialità tra i popoli, per la risoluzione diplomatica dei conflitti. Un “principio/ speranza”, scriveva Ernst Bloch.


Migrantes: Ue e Italia accoglienti solo con gli ucraini

da Remocontro

Protezione temporanea nell’Unione a quasi 4,5 milioni di ucraini senza perdere benessere e sicurezza, mentre per gli altri profughi continuano i respingimenti lungo tutte le frontiere europee. E si torna a respingere al confine italo-sloveno, ‘La Lampedusa del Nord’ come la definisce il ministro Luca Ciriani, a tentare di giustificare una grave violazione dei diritti umani.

Migranti diversi. O pietà diverse. O diverso colore della pelle?

«Solidali con gli ucraini, ma sempre respingenti e discriminanti in violazione dei diritti umani e delle convenzioni internazionali con tutti gli altri profughi. È la grande contraddizione di Italia ed Europa che hanno viaggiato su due binari in termini di accoglienza nell’anno più drammatico del secolo», denuncia Avvenire, il giornale dei vescovi italiani.

Italia-Slovenia e rotta balcanica

E sono trascorsi solo due anni da quando il Tribunale di Roma, gennaio 2021, dichiarò illegittime le riammissioni dall’Italia alla Slovenia perché fondato su un accordo siglato nel 1996 e mai ratificato dal Parlamento, violando leggi interne, europee e internazionali, oltre ad esporre le persone a «trattamenti inumani e degradanti lungo i Paesi dei Balcani e a torture in Croazia».

Le disparità nel diritto di asilo

‘Diritto d‘asilo’, il rapporto della Fondazione Migrantes sui rifugiati fotografa il 2022 in casa nostra. E ci dice che a giugno vivevano in Italia poco meno di 296 mila persone con protezione internazionale (profughi ucraini inclusi), circa cinque rifugiati ogni mille abitanti. Ben lontano dalle cifre dell’accoglienza di Francia (613 mila) e Germania (2.235.000) decisamente più alte, pur essendo l’Italia terra di primo approdo sul Mediterraneo.

Accoglienza senza perdere in benessere

Il rapporto sottolinea che «l’Europa ha saputo accogliere milioni di profughi senza perdere un decimale in benessere e sicurezza». L’Ue ha infatti registrato oltre 4.400.000 ucraini per la protezione temporanea fino all’inizio di ottobre (171 mila in Italia, dove ha operato salvando il governo da molti problemi la generosa ‘auto-accoglienza’ della comunità ucraina in collaborazione con tanti cittadini italiani).

Domande di asilo, più di metà respinte

Quanto alle altre domande di asilo, il primo semestre ’22 vede già 365 mila richiedenti, contro i 201 mila dello stesso periodo del ’21. Percorsi a rilento. Solo il 38% delle domande esaminate per la prima volta nel 2021 (202.200 su 523.200) e solo il 33% dei ricorsi presentati hanno avuto esito positivo. Italia lenta e severa: nel 2021 solo 51.931 le domande d’asilo giunte a ‘sentenza’, e di queste il 58% ha avuto esito negativo.

Europa che accoglie o respinge, a sua convenienza

Contemporaneamente –denuncia Migrantes-, gli Stati dell’Unione «hanno fatto di tutto per tener fuori dai propri confini, direttamente o per procura, decine di migliaia di migranti e rifugiati altrettanto bisognosi di protezione (se non ancora più fragili) di quelli ucraini».

Sterminio Mediterraneo

Verso la fine di ottobre 2022 la stima (minima) dei rifugiati e migranti morti e dispersi nel Mediterraneo è di poco inferiore ai 1.800 esseri umani. Ancora una volta a pagare il tributo più pesante sono coloro che tentano la traversata del Mediterraneo centrale, sulla rotta che porta verso l’Italia e Malta, dove si sono contati 1.295 morti e dispersi.

Riesplode infernale Rotta balcanica

Gli ultimi anni hanno visto in netta crescita anche gli attraversamenti delle frontiere esterne dell’Ue dai Balcani occidentali: dai 5.900 del 2018 ai 106.400 dei primi nove mesi di questo 2022. Col ritorno delle forzature e illegalità vere e proprie denunciate all’inizio, fra Trieste e Lubiana.


  • La differenza
    È infatti enorme la differenza tra la guerra e la pace. E la tragedia è proprio questa, che la guerra si concede una pausa per riprendere ancora più incondizionata di prima. E ciò perché questa non è neanche degna di essere chiamata guerra, perché le guerre si fanno per ottenere qualcosa, che è la posta in gioco della guerra. Invece questa è una guerra che ha per fine la negazione reciproca dell’esistenza dell’altro. E attraverso un rovesciamento di ciò, nella costruzione di una umana convivenza tra i membri del popolo palestinese e i cittadini ebrei dello Stato di Israele, che può istituirsi, non una tregua, ma la pace
  • Scendere
    Mi tocca difendere il Ministro Lollobrigida, perché la sua richiesta di fermata del treno in ritardo, per proseguire in auto, era motivata da un interesse pubblico istituzionale, prevalente su quello privato degli altri passeggeri. Ovvero la sua presenza come Ministro – cioè a nome dello Stato – a Caivano, per inaugurare un parco ad alto valore simbolico, come riscatto di un territorio abbandonato al degrado e alla criminalità. (Marnetto)
  • La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele
    La feroce rappresaglia di Israele nella striscia di Gaza, accompagnata da un’ aggressiva reazione dei coloni nella Giordania occupata, rischia ora di compromettere, a vantaggio di Hamas, anche il fragile compromesso con i paesi arabi moderati, avviato col “patto di Abramo” e la compiaciuta assistenza degli Stati uniti. La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele.I Paesi arabi moderati, gli alleati di sempre, il lato debole della geopolitica americana prigioniera di Netanyahu in Medio Oriente. Prima tra tutti la Giordania. Re Abdullah II di fronte alla devastante reazione israeliana ai massacri di Hamas, sta per rivedere la trentennale ‘pacificazione’ con Tel Aviv, ma anche le relazioni privilegiate con Washington
  • Professione reporter dopo il 7 ottobre. I dubbi di Eric Salerno (e non soltanto)
    Come è stata l’informazione dal 7 ottobre a oggi, ossia da quando i palestinesi –‘militanti di Hamas’, ‘terroristi’, ‘nazisti’, ‘criminali di guerra’, ‘partigiani’, ‘combattenti per la libertà’ o altri termini scelti da chi giudicava e raccontava – hanno dato l’assalto a Israele? Cosa sono oggi i giornalisti o fotografi ‘embedded’? Cosa rappresentano i palestinesi arabi che lavorano per i grandi media; giovani o meno che raccontano da Gaza? E la stampa israeliana? Quella italiana?
  • Pazzo
    Guardo l’Argentina e penso all’Italia. Nella nazione del Sud America la povertà si è talmente diffusa da risucchiare nell’angoscia metà della popolazione. I poveri prima smettono di votare (astensione), dopo scelgono il ”pazzo” più distruttivo del sistema che li ha affamati.  E questo processo è più rapido se c’è l’elezione diretta del presidente (o del premier). (Marnetto)
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