Limes: «Zelensky ha problemi sul fronte interno»
“Al presidente Zelensky non sono piaciute le dichiarazioni di Draghi e quelle di Biden sulla necessità di trovare una via d’uscita….E questo perché comincia ad avere problemi interni, in particolare con il reggimento Azov”.
Il commento di Lucio Caracciolo è riferito oggi da Remocontro “alle ultime dichiarazioni del presidente Ucraino, televisivamente onnipresente, rilasciate a Porta a Porta”. E con la doverosa premessa da parte mia che stimo il direttore di “Limes” , come il numero uno dell’informazione italiana in fatto di geopolitica e relazioni internazionali, questa sua dichiarazione su la 7 mi pare anche implicitamente un opportuno invito a riflettere sul ruolo pericolosamente sproporzionato che l’emotività ha e purtroppo rischia ancora di avere sulla valutazione di questa guerra e dei modi per uscirne.
Zelensky che spinge, l’Europa che frena

Caracciolo rileva come i problemi interni al governo di Kiev, assieme a «un atteggiamento più compromissorio dei principali paesi occidentali», di fatto rischiano di inasprire ancora di più la situazione. Stanno venendo al pettine i nodi della sanzioni volute dagli Usa. Zelensky? Ha problemi sul fronte interno».
Le sanzioni contro l’Europa
Stanno venendo al pettine i nodi delle sanzioni, che sono state volute soprattutto dagli americani per dividere gli europei dai russi. Solo che poi si finisce per dividere anche gli europei dagli Usa, ed è quello che è andato a dire Draghi a Washington».
«Draghi ha fatto notare a Biden che se continuiamo così non reggiamo, sia dal punto di vista economico, sia da quello sociale. Ci sono ormai delle linee di faglia molto forti»
E poiché la giornata domenicale si presta al bisogno di approfondire, anche da in punto di vista storico, non solo i precedenti ma anche le prospettive di una guerra che molti prevedono ahimè di lunga durata, il racconto che segue di Giovanni Punzo sul Remocontro di oggi servirà egregiamente allo scopo.
Finlandia e Russia prima della Nato.
Perché prima della NATO c’è stata la ‘guerra d’inverno’, combattuta tra il 30 novembre 1939 e il 12 marzo 1940 dalla Finlandia e dall’Unione Sovietica. Finì con la firma di un accordo di pace in cui la Finlandia cedette all’Unione Sovietica circa il 10% del proprio territorio, tra cui gran parte della Carelia, alcune isole nel golfo di Finlandia e, all’estremo nord, la propria porzione della penisola di Rybačij.

Dalle Memorie di Nikita S. Kruscev:
«Tutti noi – e Stalin prima e più di ogni altro – avevamo la sensazione che la nostra vittoria sulla Finlandia fosse in realtà una sconfitta. Era una sconfitta pericolosa perché confermava nei nostri nemici la convinzione che l’Unione Sovietica fosse un colosso coi piedi d’argilla….Noi non possiamo spostare la nostra città – sembra abbia detto con molta franchezza Stalin aprendo il primo incontro – ma voi potete spostare i vostri confini».
Nonostante il patto di ‘non aggressione’ sottoscritto con la Germania nazista e dopo la spartizione della Polonia, nell’autunno del 1939 l’Unione Sovietica continuava a sentirsi minacciata. In particolare pericolo, secondo Stalin, era soprattutto la città di Leningrado (San Pietroburgo oggi), a pochi chilometri dal confine con la Finlandia e di conseguenza possibile obiettivo delle artiglierie nemiche”.
Negoziati con la Finlandia
Furono avviati così dei negoziati con la Finlandia offrendo anche apprezzabili compensazioni territoriali, ovvero la cessione di parti di territorio russo lungo il confine più a nord, ma la risposta fu negativa. Sorpresi dalla fermezza dell’atteggiamento finlandese, i sovietici optarono allora per l’uso della forza, nella convinzione che sarebbe bastato aprire il fuoco per convincere i recalcitranti finnici a ritirarsi di poche decine di chilometri dalla costa che si affacciava sul golfo di Finlandia.
Ma non andò così e il 30 novembre 1939 cominciarono le ostilità che si sarebbero protratte con accanimento da ambo le parti fino alla metà di marzo del 1940. Ciò che sorprese i sovietici fu soprattutto la mobilità sul terreno e la capacità di colpire inattesi: i finlandesi infatti impiegavano unità sugli sci, ben mimetizzate e capaci di muoversi velocemente. La risposta fu allora il reclutamento di atleti che praticavano lo sci, tratti soprattutto da gruppi sportivi civili: fu un sostanziale fallimento e un’ecatombe, perché nonostante la preparazione atletica era del tutto assente quella militare.
Nel frattempo inoltre la resistenza del popolo finlandese aveva ottenuto attenzione internazionale e simpatia: oltre alle munizioni e ai rifornimenti militari necessari, giunsero da tutto il mondo sostegni sanitari e anche volontari soprattutto dalla Norvegia e dalla Svezia.
Stalin nel frattempo era furibondo con i suoi generali e soprattutto con Voroscilov, che per anni era stato commissario del popolo per le forze armate. Secondo una testimonianza di Kruscev, nel corso di una cena nella dacia di Stalin, il padrone di casa accusò pesantemente Voroscilov alzando la voce.
La risposta, altrettanto concitata, fu: «Sei stato tu ad annientare la vecchia guardia dell’esercito, e a fare ammazzare i tuoi migliori generali!» e a quel punto il maresciallo dell’Unione Sovietica si alzò, rovesciò piatti e bicchieri e uscì sbattendo la porta davanti a uno Stalin esterrefatto. Naturalmente fu rimosso dal comando e sostituito con Timoscenko, ma schivò una sorte peggiore.
L’ultimo attacco

Il nuovo comandante Timoscenko, dopo che l’arte militare dei suoi colleghi non era riuscita ad avere il sopravvento, optò per una strategia meno raffinata, ma più efficace: attaccò frontalmente la linea difensiva finlandese sull’istmo di Carelia con tutta l’artiglieria disponibile, distruggendo – o meglio ‘sgretolando’ – una ad una le postazioni in cemento e i singoli capisaldi. L’operazione finale fu condotta dalla metà di febbraio ai primi di marzo e il 7 i finlandesi chiesero di aprire delle trattative.
Il trattato di Mosca
Il 12 marzo 1940 fu firmato il trattato di Mosca: la Finlandia dovette cedere la parte sud-orientale della Carelia, praticamente tutto il distretto di Viipuri, e altre zone più a nord corrispondenti a circa seicentocinquantamila chilometri quadrati. I nuovi confini corrispondevano grossomodo a quelli dei tempi di Pietro il Grande, ma il bilancio delle perdite sovietiche fu impressionante: tra morti e dispersi oltre centoventicinquemila russi. Venticinquemila le perdita finlandesi, pesanti per un piccolo paese, anche se molto inferiori alle perdite russe.
Dalla Finlandia di ieri allo Sri Lanka di oggi.

La guerra della fame. Decine di morti e centinaia di feriti negli scontri con le forze dell’ordine.
Come per lo più accade e viene colpevolmente dimenticato, quella che era una crisi economica è sboccata inevitabilmente anche in una clamorosa protesta politica. Contro i despoti al potere ma soprattutto contro povertà e fame. Innescata il mese scorso con la crisi degli approvvigionamenti anche alimentari, l’ondata di rabbia contro il presidente Gotabaya Rajapaksa e il fratello e primo ministro Mahinda, dinastia politica che domina il paese da decenni.
Un preoccupante anticipo di ciò che sta minacciando una miriade di Paesi con governi corrotti o comunque precari, ora sull’orlo della crisi economica. Colpiti prima dalla pandemia e ora dalla guerra del grano Russia-Ucraina.

Dopo settimane di proteste sfociate nelle violenze del 9 maggio, in Sri Lanka gli agenti sono stati autorizzati a sparare sulla folla.
Le diverse religioni coi ribelli
«L’eccezionalità delle proteste è stata data anzitutto dalla partecipazione di diversi gruppi religiosi (buddisti, musulmani, induisti e cattolici), una cosa piuttosto rara in un paese in cui le profonde divisioni tra comunità hanno portato spesso a violenti conflitti interni».
Nell’ultimo mese, molti di questi gruppi si sono uniti alle proteste chiedendo tutti la stessa cosa: le dimissioni del presidente e del primo ministro. I due fanno parte di una delle dinastie politiche più potenti dello Sri Lanka, che conta sette fratelli che hanno tutti avuto importanti ruoli politici o amministrativi, e che sono stati in più occasioni accusati di corruzione e nepotismo.
Nelle ultime settimane il governo ha tentato in più occasioni di minimizzare la gravità della crisi in corso, senza successo. Il mese scorso la Banca centrale dello Sri Lanka aveva dichiarato default e annunciato la sospensione del pagamento di parte del proprio debito ai creditori internazionali: un debito di 50 miliardi di dollari, più della metà del PIL, costituito soprattutto da titoli di stato, con Cina e Giappone come principali creditori.
La condizioni locali sulla crisi planetaria
La crisi economica dello Sri Lanka ha radici piuttosto profonde: c’entrano leadership corrotte e fallimentari già citate, a cui si sono aggiunti negli ultimi due anni la pandemia, un aumento dei prezzi di materie prime ed energia conseguenze della guerra in Ucraina, che in Sri Lanka riguardano soprattutto i prezzi di carburante e grano.
Diritti umani con lo sconto

La dinastia politica Rajapaksa, il presidente e il fratello primo ministro
All’impoverimento dello Sri Lanka ha contribuito inoltre la pessima fama del governo sul rispetto dei diritti umani, come si è visto soprattutto durante la lunga guerra civile combattuta contro i separatisti dell’organizzazione militare Tigri Tamil, che l’allora presidente Mahinda Rajapaksa dichiarò vinta nel 2009. Per via delle accuse di crimini di guerra compiuti dal governo, sia l’Unione Europea che gli Stati Uniti avevano interrotto gli aiuti economici verso il paese.
SOS banca Mondiale
Per far fronte alla crisi, la Banca Mondiale ha deciso di inviare 600 milioni di dollari di aiuti, che arriveranno in momenti diversi e serviranno prima di tutto per comprare medicine, cibo ed energia. Il governo sta cercando di concludere un accordo per altri aiuti col Fondo Monetario Internazionale, che tempo fa aveva definito il debito del paese «insostenibile». E anche l’India, interessata a competere con la Cina, ha promesso di inviare aiuti. Non ci si aspetta, però, che saranno interventi risolutivi.
E il vasto mondo dei Paesi africani e asiatici con l’acqua alla gola per l’impennata dei prezzi dell’energia e gli introvabi rifornimenti alimentari, tremano per ciò che potrebbe accadere anche in casa loro
Non so quanti di voi saranno riuscito ad arrivare in fondo a questa lunga e documentazione di follie e irresponsabilità umane ma è soprattutto a loro che vorrei dedicare, come conclusione, il breve commento odierno di Giovanni Lamagna ad una ben nota tesi di Hegel:
“Tutto ciò che è razionale è reale e tutto ciò che è reale è razionale”.
E’ questa una delle affermazioni più note della “Filosofia del diritto” di Hegel, anzi dell’intera storia della filosofia; che, però, non mi ha mai convinto. Perché spesso ciò che è razionale in teoria non è presente nella realtà e ciò che è presente nella realtà molte volte non è razionale dal punto di vista teorico. L’affermazione di Hegel esprime da un lato la proiezione di un desiderio, di un auspicio, dall’altro la giustificazione – molto benpensante, perbenista e quietista – dell’esistente.
- Sulla valutazione dei magistratiSi vuole introdurre la valutazione della Magistratura? Bene, allora li si faccia anche per gli altri poteri dello Stato. Per il Parlamento vedrei bene l’adozione del ‘’criterio di laboriosità’’: un quinto degli onorevoli e senatori più assenteisti nel biennio vengono sostituiti con elezioni suppletive programmate.
- ‘Peggio del presente, a Gaza, c’è solo il futuro’: Eric SalernoAltri ostaggi sono tornati a casa, tutti sembra, in relativamente buone condizioni di salute anche se traumatizzati dal rapimento e dalla prigionia nelle mani degli uomini di Hamas. In Israele manifestazioni di giusta felicità miste a paura per quello che è accaduto il 7 ottobre e per quello che potrebbe ancora succedere. Centinaia di video passano di mano in mano. In Israele e fuori.
- La differenzaÈ infatti enorme la differenza tra la guerra e la pace. E la tragedia è proprio questa, che la guerra si concede una pausa per riprendere ancora più incondizionata di prima. E ciò perché questa non è neanche degna di essere chiamata guerra, perché le guerre si fanno per ottenere qualcosa, che è la posta in gioco della guerra. Invece questa è una guerra che ha per fine la negazione reciproca dell’esistenza dell’altro. E attraverso un rovesciamento di ciò, nella costruzione di una umana convivenza tra i membri del popolo palestinese e i cittadini ebrei dello Stato di Israele, che può istituirsi, non una tregua, ma la pace
- ScendereMi tocca difendere il Ministro Lollobrigida, perché la sua richiesta di fermata del treno in ritardo, per proseguire in auto, era motivata da un interesse pubblico istituzionale, prevalente su quello privato degli altri passeggeri. Ovvero la sua presenza come Ministro – cioè a nome dello Stato – a Caivano, per inaugurare un parco ad alto valore simbolico, come riscatto di un territorio abbandonato al degrado e alla criminalità. (Marnetto)
- La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con IsraeleLa feroce rappresaglia di Israele nella striscia di Gaza, accompagnata da un’ aggressiva reazione dei coloni nella Giordania occupata, rischia ora di compromettere, a vantaggio di Hamas, anche il fragile compromesso con i paesi arabi moderati, avviato col “patto di Abramo” e la compiaciuta assistenza degli Stati uniti. La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele.I Paesi arabi moderati, gli alleati di sempre, il lato debole della geopolitica americana prigioniera di Netanyahu in Medio Oriente. Prima tra tutti la Giordania. Re Abdullah II di fronte alla devastante reazione israeliana ai massacri di Hamas, sta per rivedere la trentennale ‘pacificazione’ con Tel Aviv, ma anche le relazioni privilegiate con Washington