La verità sostanziale dei fatti
Sessant’anni di professione mi hanno insegnato che non si può né si deve pretendere da un giornalista di essere completamente neutrale rispetto agli avvenimenti. Tutto quello che possiamo chiedergli è di fare una distinzione tra il racconto e l’interpretazione dei fatti. La correttezza professionale impone di riferirli così come risulta che siano avvenuti o come gli sono stati riferiti da testimoni attendibili. In altre parole, come si legge in una norma di legge professionale (art.2) – vecchia di sessant’anni ma che almeno in questo non ha mai sollevato dubbi sulla sua validità – il giornalista ha “l’obbligo inderogabile” di rispettare “la verità sostanziale dei fatti” e di “osservare sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”. Rettificando “le notizie che risultino inesatte” e “riparando gli eventuali errori”.
Come sempre, peró, tra il dire e il fare c’é di mezzo il mare. E anche il giornalista avverte soprattutto il suo interesse ad assecondare l’indirizzo imposto dall’editore tramite la dittatura del direttore, nelle mani dei quali sono il suo stipendio e la sua carriera. Ciò spiega perché sia così facile prevedere quello che si leggerà su un giornale o si vedrá e ascolterà su un canale televisivo. Sulla politica, l’economia o la morale pubblica e privata. Fortunatamente non mancano le eccezioni, editorialisti o grandi inviati che hanno raggiunto un prestigio tale da potersi permettere di rompere la monotonia del pensiero di parte su temi cruciali come le alleanze politico-militari e le guerre. Così ci è capitato di poter leggere anche su un grande giornale conservatore come il Corriere della Sera un articolo come quello che vi propongo di Massimo Nava ripreso anche da Remocontro. (nandocan).
Menzogne, arroganza, guerre: se la storia ignora la memoria
Massimo Nava sul Corriere della Sera

Storia e memoria, senza sconti di convenienza
Decisamente, il mese di Febbraio è stato un mese di anniversari importanti. Non solo quello, appena ricordato, dell’invasione russa dell’Ucraina, ma anche di quello di vent’anni fa, in cui maturò la decisione degli Usa di invadere l’Iraq. La maggioranza dei Paesi rappresentati all’Onu ha condannato l’azione della Russia, ma allora l’Assemblea assistette a due drammatici interventi contrapposti.
Il 5 febbraio 2003, il segretario di Stato Usa, Colin Powell, cercò di dimostrare che il dittatore Saddam Hussein fosse in possesso di armi di distruzione di massa e che pertanto andasse attaccato, con l’obiettivo di abbattere il regime e avviare un processo democratico. Ma il ministro degli esteri francese, Dominique de Villepin, si oppose con fermezza, sostenendo la necessità di perseguire la via diplomatica e i controlli delle agenzie internazionali sugli arsenali dell’Iraq. Di fatto, si creò una spaccatura fra Francia e Stati Uniti, la cui onda lunga sarebbe arrivata in Europa e nel mondo arabo e africano. L’immagine dell’America fu offuscata.
La Storia darà ragione alla Francia
Non solo perché le accuse di Powell si dimostrarono false, come lui stesso ammise anni dopo, ma perché la guerra in Iraq avrebbe fatto a pezzi il diritto internazionale e innescato una drammatica instabilità in tutto il Medio Oriente, le cui conseguenze furono il Califfato dell’Isis, gli attentati di matrice islamica in Europa, la guerra in Siria. In Iraq, all’invasione e ai bombardamenti seguirono anni di attentati contro la popolazione civile e scontri fra le componenti religiose. In Afghanistan, cominciò un’altra operazione militare, fino all’ignominiosa riconquista da parte dei talebani.
«In Iraq — disse de Villepin dopo il conflitto — non erano in gioco soltanto guerra e pace, ma anche le regole su cui deve essere fondato l’ordine internazionale. L’intervento preventivo non può essere una regola». L’allora segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan definì l’intervento in Iraq con un solo aggettivo: «Illegale».
Guerra, sanzione di fallimenti
Come in una profezia, de Villepin aveva indicato il rischio di aggravare le divisioni tra società, culture e popoli, un terreno fertile per il terrorismo e l’instabilità internazionale. «La guerra è sempre la sanzione di un fallimento. (…) Parlo a nome di un vecchio Paese, la Francia, di un continente come il mio, l’Europa, che ha conosciuto guerre, occupazioni, barbarie…». Ma furono parole al vento. Allora, come del resto oggi, la diplomazia fu messa tra parentesi, accantonata come un segno di debolezza o peggio di benevolenza verso il nemico. Salvo ritornare di moda in un deserto di lutti e macerie.
‘Volenterosi’ pericolosi, ieri e oggi
Colin Powell a un giornalista dell’Abc News ammise: «Naturalmente. È una macchia. Io sono colui che ha agito in nome degli Stati Uniti e questo sarà parte della mia storia. È stato doloroso». Ma il 20 marzo, esattamente vent’anni fa, la guerra cominciò e l’Iraq fu invaso dalla cosiddetta «coalizione di volenterosi», guidata da Stati Uniti e Gran Bretagna e sostenuta — ieri come oggi — dal più solerte alleato degli americani, la Polonia.
Mangiare una zuppa col coltello
Non erano necessarie sfere di cristallo, rapporti dell’intelligence o profonda conoscenza dell’Iraq per prevedere che la guerra sarebbe stata breve e il dopoguerra infinito. Bastava ascoltare testimoni del tempo come il vecchio Amir, che citava Lawrence d’Arabia: «Quando si comincia una guerra da queste parti è come mangiare una zuppa con il coltello»; o guardare vecchie fotografie, come quella del 1917 (per chi ama le coincidenze, era sempre in marzo), che raccontavano l’invasione britannica. I soldati che entravano a Bagdad erano agli ordini del generale Stanley Maude che disse: «Non veniamo qui come nemici, né come conquistatori, ma come liberatori».Seguirono rivolte e massacri.
I vecchi di Bagdad non potevano accertare l’esistenza delle armi di distruzione di massa, il pretesto della guerra, ma nemmeno immaginare che la tragedia del loro Paese sarebbe cominciata con una bugia proclamata nella massima istituzione internazionale.
Europa divisa e Italia americana
La guerra divise l’Europa, dal momento che Francia e Germania si opposero all’intervento, mentre Gran Bretagna, Polonia e Italia sostennero la decisione americana. Anni dopo, anche il Parlamento di Londra mise sotto accusa il premier Tony Blair, confermando che l’intervento fu deciso sulla base di motivazioni false e non seriamente vagliate.
La Francia, allora paladina del diritto internazionale e dell’opposizione alla guerra, cambiò tuttavia registro anni dopo: l’ex presidente Nicolas Sarkozy fu infatti il primo sostenitore del bombardamento della Libia per eliminare Gheddafi. Seguirono guerra civile, scontri tribali, ondate migratorie, instabilità endemica.
Pretesti e giustificazioni per interventi armati
Anniversari e ricorsi storici, oggi come ieri, rimandano al conflitto fra sovranità degli Stati e diritti dei popoli e delle minoranze. Conflitto che ha offerto negli ultimi vent’anni i più svariati pretesti e giustificazioni per interventi armati. Basti ricordare la legittima difesa e la lotta al terrorismo (Afghanistan), il dovere d’ingerenza (Bosnia, Kosovo), le armi di distruzione di massa e l’esportazione della democrazia (Iraq), la protezione di una minoranza (Libia). Giustificazioni più o meno etiche, come il«bombardamento umanitario», un ossimoro, o dettate da ambizioni e interessi strategici, che hanno contribuito a indebolire il sistema internazionale delle regole e a mortificare il ruolo delle Nazioni Unite.
Con il risultato che il vuoto di legalità è stato progressivamente riempito da altre logiche, da obiettivi politici e militari con pretesa di fondamento morale e ideologico e in sostanza dalla più ignobile delle leggi, quella del più forte, come nella martoriata Ucraina, vittima della legge di Putin.
Gran Bretagna, guerra contro i migranti, carcere e deportazione in Ruanda, mentre cercano mano d’opera

Piero Orteca su Remocontro
‘Immigration Bill’, legge razzista alla quale il premier britannico di origini indiane ma miliardario, affida le sorti elettorali dei conservatori semidistrutti dai premier precedenti e dati per spacciati alle prossime elezioni. Immigrati clandestini ‘catturati’, sbattuti in carcere per almeno 28 giorni, e poi deportati in Ruanda ‘o in qualche altro Paese sicuro’, (sicuro per l’Inghilterra). Navigazione parlamentare che si preannuncia turbolente e incerta. Oggi Sunak incontra Macron in Francia per discutere ‘sulla difesa’ della Manica.
Mentre si aprono le porte alla migrazione ‘virtuosa’, quella utile e loro, per far fronte alla crisi economica galoppante.
Sul fronte della Manica
Oggi, in Francia, per incontrarsi con il Presidente Emmanuel Macron, arriva (e di gran corsa), il Primo ministro britannico Rishi Sunak. Il meeting era stato arrangiato da tempo, ma consistenti divergenze di vedute tra i due Paesi, su alcuni nodi di scottante attualità (in primis, la disciplina dei flussi migratori) hanno consigliato di rispettare l’appuntamento, andando subito al sodo. I rapporti franco-inglesi non sono tanto cordiali perché ci sono dissapori, cresciuti in maniera esponenziale dopo la Brexit. Le lunghe negoziazioni sul versante finanziario e commerciale con Bruxelles, il problema delle zone di pesca, lo sgarbo (“concorrenza sleale” secondo Parigi) relativo ai sottomarini nucleari da vendere all’Australia, sono tutte ferite aperte, che stentano a rimarginarsi.
A questo “cahier de doleances”, si aggiunge adesso un’emergenza che sembrava dovesse toccare solo agli altri: l’Inghilterra (urlano a Downing Street) sta per essere invasa. Dai migranti. Che partono ‘illegalmente’ dalle coste della Francia, a bordo di tutto quello che galleggia, fosse pure una vasca da bagno, tanta è la disperazione.
L’invasione d’Inghilterra
A Londra non li vogliono e studiano leggi da Sant’Uffizio. Ergo, l’accoglienza è una bella cosa, ma solo quando la fanno gli altri, perché costa. Non lo diciamo noi, ma lo affermano i commentatori dall’autorevolissimo Times: «Sunak dovrebbe accettare le richieste di Macron – scrive il giornale – avendo fatto della riduzione degli attraversamenti una delle principali priorità del governo. I costi saranno di gran lunga inferiori ai 5,6 milioni di sterline al giorno che il governo sta spendendo per alloggiare i richiedenti asilo negli hotel, escludendo quelli che sono arrivati grazie al programma di reinsediamento afghano». Ma su cosa battaglieranno oggi i due statisti? Presto detto.
Sunak rifiuta qualsiasi ipotesi di accogliere i migranti che sbarcano senza rispettare le procedure. Quindi, sta facendo passare una ‘legge di guerra sui respingimenti’, che ha già suscitato reazioni sanguinose. Macron, da parte sua, rifiuta di riaccogliere i ‘respinti’, anche se sono salpati dal territorio francese.
Migranti a macchia d’olio
Si tratta, dicono i transalpini, di migranti che si spargono a macchia d’olio dopo essere entrati in Europa, attraverso la rotta balcanica o quella mediterranea (Italia, Spagna, Grecia) e che infine convergono, usando la Francia come un collettore ad ansa, verso il Pas-de-Calais. Ma Sunak, come già detto, ha incaricato la Ministra dell’Interno, Suella Braveman, di presentare una disciplina che preveda misure draconiane per sanzionare gli ingressi clandestini. Contemporaneamente, forse si deciderà a sostenere l’istituzione di pattuglie congiunte, anglo-francesi, per impedire la partenza dei migranti da tutta la fascia costiera che da Calais va a Dunkerque, fino a Boulogne sur Mer. Sunak, d’accordo con la Braverman, impedirà a qualsiasi clandestino di presentare domanda di asilo o di rifugiato politico.
Carcere e deportazione in Ruanda
Tutti quelli catturati, saranno sbattuti in carcere per almeno 28 giorni, dopodiché saranno deportati in Ruanda “o in qualche altro Paese sicuro” (per loro o per l’Inghilterra?). L’attuale governo conservatore è però pronto a discutere, con l’Unione Europea, eventuali ‘misure comuni’. Quali non si sa. Detto per inciso, a Westminster, Lords e ‘Members of parliament’ stanno denunciando il fatto che, l’anno scorso, sono sbarcati attraverso la Manica 45 mila ‘boat-people’. Cioè, detto fra di noi, quasi niente. Specie se queste cifre sono confrontate con quelle di Paesi come l’Italia. E tornano alla memoria le bacchettate che qualcuno, nell’Europa del nord, ha distribuito, in passato a proposito dei flussi di disperati che attraversano le acque del Mediterraneo. Un problema per tutti i governi del Sud, aggravato da un Trattato di Dublino studiato col paraocchi. Ora che il problema si è spostato anche nell’Europa carolingia, beh, se ne accorgono e cercano di correre ai ripari.
L’Europa Carolingia
Chi sbarca in Inghilterra è (per ora) di un piccolo esercito di variegate etnie, confluito nel nord-est della Francia (zona del Pas-de-Calais) da tutta Europa, a piccoli gruppi. Cercano il ‘grande salto’, varcare il Canale, con imbarcazioni di tutti i tipi, per ricongiungersi, nel Regno Unito, con parenti e amici. Ovviamente, senza seguire le severe procedure di ‘accettazione’ (è un eufemismo) previste dalla burocrazia britannica. Parliamo insomma (anche se il termine ci ripugna) di ‘clandestini’, che una volta riusciti a mettere piede nelle Isole di Sua Maestà, dovrebbero già avere acquisito tutti i requisiti per essere trattati da ‘richiedenti asilo’. Ma La Gran Bretagna regola le richieste di asilo soltanto con paesi che rientrano nei propri interessi ‘geopolitici-imperialistici’: l’Ucraina, l’Afghanistan e Hong Kong.
Sunak e la Braverman, si vogliono rimangiare tutto quello che la democrazia britannica predica solo quando le conviene. Lo ha ribadito anche l’ex stella del calcio inglese, Gary Lineker, scatenando un uragano di polemiche, nel definire alla BBC la legislazione che sta per essere introdotta sui migranti, degna della Berlino degli Anni Tranta.
Gary Lineker

“Dopo le critiche al governo inglese paragonato alla Germania nazista, Gary Lineker è stato sospeso dalla BBC. Ammutinamento però di altri opinionisti e giornalisti della Tv che ha dovuto cambiare la programmazione. E i calciatori rifiutano di parlare con la Bbc. Le aspre critiche al disegno di legge sull’immigrazione del governo di Rishi Sunak gli è costata la sospensione dal ruolo di commentatore (era il più pagato) alla Bbc, ma l’ex attaccante della nazionale inglese Gary Lineker ha ricevuto subito moltissima solidarietà da parte del mondo del giornalismo sportivo e del calcio giocato.” (Corriere della Sera)
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A Richard Sharp, Presidente della BBC
Le scrivo per manifestare la mia piena solidarietà al giornalista Gary Lineker, ”colpevole” di aver criticato la recente decisione del Governo Conservatore della Gran Bretagna di adottare la disumana legge sull’immigrazione illustrata in Parlamento dalla Ministra dell’Interno, Suella Braverman.
La sospensione di Gary Lineker dalla conduzione del suo programma è una violazione della libertà di pensiero, sorprendente in un Paese che vanta una lunga tradizione di rispetto di questo diritto. Pertanto, chiedo che Gary Lineker sia al più presto riammesso alla conduzione televisiva, nella speranza che questo ”incidente autoritario” non si ripeta.
Con vigilanza democratica,
Massimo Marnetto – Roma
- Mai tanti morti tra i civili, donne e bambini, come a Gaza…e nel Tg1 delle 13 le aperture su Gaza, con poco rispetto dell’attualità, riguardavano ancora oggi le malefatte e le minacce di Hamas e soltanto dopo cronaca e immagini di stragi e macerie procurate dall’invasione israeliana. Ma l’esodo forzato dei palestinesi inseguiti dai carri armati israeliani verso l’Egitto non può che riportare alla mente quello negli stessi luoghi degli ebrei inseguiti dai carri del Faraone. Forse Israele non riuscirà a distruggere Hamas, ma è già riuscito a distruggere Gaza. (nandocan)
- COP 28 a Dubai”Il petrolio non è responsabile dei danni all’ambiente”. “Ci vuole più atomo per salvare il pianeta”. Con questi due clamorosi proclami si chiude la COP 28, a Dubaii. Un mastodontico summit che – invece di entrare nel merito dell’abbattimento delle emissioni di CO2 – ha lanciato una sorta di ”negazionismo camuffato”. Quel pensiero che non rigetta il problema (surriscaldamento), di cui anzi si mostra preoccupato; ma ne elude la soluzione agendo sulla negazione delle cause (combustione fossili) e alterazione dei rimedi (nucleare), per evitare cambiamenti radicali (drastica riduzione dell’energia da fonti fossili).
- A che punto è la notteCome sentinelle abitiamo la notte di quest’epoca. Sapendo che la notte non è per sempre e l’alba arriverà. E sapendo, soprattutto, di non sapere quando arriverà.
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