Reader’s – 12 luglio 2022

“La guerra russo-americana” è il titolo dell’ultimo numero di “Limes”, la più autorevole rivista di geopolitica del nostro Paese. E Remocontro, che non si chiamerebbe così se non rifiutasse l’atlantismo più o meno camuffato dei grandi mass media che negavano ancora l’evidenza di una guerra “per procura”, sottolinea l’abbandono di ogni ipocrisia di linguaggio nell’annuncio di Ennio Remondino.

L’editoriale di Limes non usa giri di parola. La guerra russo-americana: Mosca avanza, Washington arretra. «Comunque finisca, l’impero europeo dell’America non sarà quello di prima. Da questo conflitto nascerà un nuovo disordine mondiale».
L’Ucraina è paese belligerante nella guerra scatenata dall’invasione russa. Ma è soprattutto, tragico campo di battaglia di un conflitto che ha i suoi maggiori attori in potenze altre rispetto allo Stato ucraino. La Russia, certo. Ma sempre più l’America, per tramite della Nato. Con la Cina in posizione schierata e di non passiva osservazione.

Nuovo disordine mondiale

Dal conflitto russo americano in Ucraina, la previsione di Limes, «nascerà un nuovo disordine mondiale. Non un ordine, perché chiunque vinca, o sopravviva, non sarà in grado di riprodurre la Pax Americana. Nemmeno l’America. Washington resterà il Numero Uno per carenza di alternative. Ma il capoclassifica non potrà ostentarsi egemone globale, né forse lo vorrà. Ridurre ad unum questa Babele d’otto miliardi di anime e diverse centinaia di attori o comparse geopolitiche è affare di Dio, non di Cesare. Per quanto intuiamo, Dio non è interessato all’impresa».

Non una terza guerra mondiale

Guerre mondiali sempre tra imperi. Le prime due per spartirsi i resti dell’impero britannico. Il dopo Impero Americano che prima o poi verrà, non sarà in Ucraina e con la Russia, l’analisi. «Se anche Putin vincesse in Ucraina non potrebbe scalzare gli Stati Uniti dal trono. Se invece prevalessero gli americani, presenterebbero il conto non tanto ai russi, impossibilitati a saldarlo, ma al resto del mondo. A cominciare dai neghittosi ‘alleati’ euroccidentali». 

«Quanto all’Italia, sarà quel che sarà indipendentemente dalla sua volontà. Siamo in modalità limitazione danni. Nel faccia a faccia tra colossi che ridisegnerà il disordine del mondo, i pesi medi o leggeri scadono automaticamente di categoria».

Se la partita sfugge di mano

E oltre le propaganda di facciata via giornalismo trombettiere (Kiev: «Un milione di soldati per riconquistare il Sud del Paese»), nell’ultimo mese americani, russi e ucraini hanno cominciato ad accorgersene. A Washington, semi nascosto, prende corpo il partito del dialogo con un articolo sul New York Times in cui Biden stabilisce tre punti abbastanza incoerenti con quanto proclamato fino allora: «non vogliamo fare la guerra alla Russia né detronizzare Putin, non ci interessa prolungare lo scontro solo per indebolire i russi. In chiaro: non moriremo per Kiev».

Russia oltre la grancassa bellicista

Qualcosa si muove anche sul fronte russo. L’ambasciatore a Washington, Anatolij Antonov, si lascia fotografare in fitto dialogo con l’ex inviato statunitense per l’Afghanistan, Zalmay Khalilzad. L’emissario di Putin concorda con il messo di Biden, che ammette: «Abbiamo bisogno di un accordo». Kiev soffre la discreta pressione americana, che suona più o meno così: «Non vi abbiamo firmato un assegno in bianco, vi diamo le armi ma voi dovete dirci fino a dove volete arrivare (leggi: arretrare, n.d.r.). Altrimenti ve lo diciamo noi».

Zelens’kyj datti una calmata

La risposta informale di Zelens’kyj, sbilanciato dai suoi enfatici proclami di vittoria, interpretata da Limes: «Alla Crimea e al Donbas potremo forse rinunciare, ma sul Sud non trattiamo: Kherson e Odessa sono vitali per noi». Tradotto: la penisola di Crimea deve tornare una Kaliningrad sul Mar Nero, separata via terra dal resto della Federazione Russa, Donbass permettendo. Ed è questa le vera battaglia che si sta combattendo in queste settimane che a quelle latitudini già preludono all’inverno.

Variegato schieramento occidentale

La decisione lituana di imporre un mezzo blocco commerciale a Kaliningrad conferma che nello scomposto schieramento occidentale «il partito della guerra da combattere fino all’ultimo ucraino onde dissanguare la Russia resta attivo». Certamente fra baltici e polacchi, con robusto supporto britannico, quest’ultimo tutto da verificare con la caduta rovinosa di Boris Johnson. Ma anche a Washington, in schieramento bipartisan tra democratici e repubblicani. Ma –monito pesante- «la guerra limitata fra Russia e America non può trascinarsi a lungo senza rischiare l’incidente o la provocazione capace di volgerla in apocalisse nucleare».

La nuova cortina d’acciaio

L’altezza della posta spiega perché i duellanti giochino a carte coperte. Per non farle leggere al nemico? No: per evitare che le si scopra oscure. In attesa che qualcuno fissi l’apertura minima sino al traguardo massimo. Solo allora Putin e Biden concorderanno la telefonata che manca da cinque mesi. Perché chi fa la guerra decide la pace. Nel caso, la tregua. Ucraini permettendo.


Missile russo su condominio a Odessa

“Dichiariamo guerra all’Ucraina”, il disperato sarcasmo di Massimo Marnetto che titola così la sua nota quotidiana. “Continuano – prosegue – le rappresaglie russe sui civili ucraini. Ma il missile sul condominio non fa più notizia. Ci si abitua anche alle persone ammazzate a domicilio, mentre stirano o preparano il pasto. Non ci sono più proteste. I russi sono riusciti a normalizzare i crimini di guerra, minacciando i comfort di pace. Negando gas all’Europa. Quella che non doveva più comprarglielo per tagliare i fondi con cui Putin foraggia la guerra e che ora trema al solo pensiero di abbassare di un grado il riscaldamento d’inverno. 

“Allora – conclude ironicamente Marnetto – facciamola finita con la manfrina delle sanzioni, dichiariamo guerra all’Ucraina, diamo una mano ai russi ad occuparla una volta per tutte e ritorniamo a forniture regolari di gas, prezzo normale della benzina e grano per tutti. Con il dramma di Di Maio che si è scisso dal M5S, Totti che si è scisso da Ilary e Fiorello che si è scisso da Amadeus,  non possiamo mica perdere ancora tempo con questa faccenda dell’Ucraina”.

(Beh, caro Massimo, un’alternativa ci sarebbe se gli europei per una volta non si accodassero rassegnati agli Stati Uniti e ai progetti incoscienti di “logorare” la Russia lasciando al dittatore Erdogan il compito di mediare per una pace o una tregua al più presto possibile)



Da Facebook: “Cultura libera, ApertaMente“:

“Sono un pubblicitario: ebbene sì, inquino l’universo.

Io sono quello che vi vende tutta quella merda.

Quello che vi fa sognare cose che non avrete mai.

Cielo sempre blu, ragazze sempre belle, una felicità perfetta, ritoccata in Photoshop. Immagini leccate, musiche nel vento.

Quando, a forza di risparmi, voi riuscirete a pagarvi l’auto dei vostri sogni, quella che ho lanciato nella mia ultima campagna, io l’avrò già fatta passare di moda. Sarò già tre tendenze più avanti, riuscendo così a farvi sentire sempre insoddisfatti. Il Glamour è il paese dove non si arriva mai. Io vi drogo di novità, e il vantaggio della novità è che non resta mai nuova.

C’è sempre una novità più nuova che fa invecchiare la precedente.

Farvi sbavare è la mia missione. Nel mio mestiere nessuno desidera la vostra felicità, perché la gente felice non consuma.”

Frédéric Beigbeder

  • La differenza
    È infatti enorme la differenza tra la guerra e la pace. E la tragedia è proprio questa, che la guerra si concede una pausa per riprendere ancora più incondizionata di prima. E ciò perché questa non è neanche degna di essere chiamata guerra, perché le guerre si fanno per ottenere qualcosa, che è la posta in gioco della guerra. Invece questa è una guerra che ha per fine la negazione reciproca dell’esistenza dell’altro. E attraverso un rovesciamento di ciò, nella costruzione di una umana convivenza tra i membri del popolo palestinese e i cittadini ebrei dello Stato di Israele, che può istituirsi, non una tregua, ma la pace
  • Scendere
    Mi tocca difendere il Ministro Lollobrigida, perché la sua richiesta di fermata del treno in ritardo, per proseguire in auto, era motivata da un interesse pubblico istituzionale, prevalente su quello privato degli altri passeggeri. Ovvero la sua presenza come Ministro – cioè a nome dello Stato – a Caivano, per inaugurare un parco ad alto valore simbolico, come riscatto di un territorio abbandonato al degrado e alla criminalità. (Marnetto)
  • La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele
    La feroce rappresaglia di Israele nella striscia di Gaza, accompagnata da un’ aggressiva reazione dei coloni nella Giordania occupata, rischia ora di compromettere, a vantaggio di Hamas, anche il fragile compromesso con i paesi arabi moderati, avviato col “patto di Abramo” e la compiaciuta assistenza degli Stati uniti. La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele.I Paesi arabi moderati, gli alleati di sempre, il lato debole della geopolitica americana prigioniera di Netanyahu in Medio Oriente. Prima tra tutti la Giordania. Re Abdullah II di fronte alla devastante reazione israeliana ai massacri di Hamas, sta per rivedere la trentennale ‘pacificazione’ con Tel Aviv, ma anche le relazioni privilegiate con Washington
  • Professione reporter dopo il 7 ottobre. I dubbi di Eric Salerno (e non soltanto)
    Come è stata l’informazione dal 7 ottobre a oggi, ossia da quando i palestinesi –‘militanti di Hamas’, ‘terroristi’, ‘nazisti’, ‘criminali di guerra’, ‘partigiani’, ‘combattenti per la libertà’ o altri termini scelti da chi giudicava e raccontava – hanno dato l’assalto a Israele? Cosa sono oggi i giornalisti o fotografi ‘embedded’? Cosa rappresentano i palestinesi arabi che lavorano per i grandi media; giovani o meno che raccontano da Gaza? E la stampa israeliana? Quella italiana?
  • Pazzo
    Guardo l’Argentina e penso all’Italia. Nella nazione del Sud America la povertà si è talmente diffusa da risucchiare nell’angoscia metà della popolazione. I poveri prima smettono di votare (astensione), dopo scelgono il ”pazzo” più distruttivo del sistema che li ha affamati.  E questo processo è più rapido se c’è l’elezione diretta del presidente (o del premier). (Marnetto)

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