Reader’s – 11 maggio 2022 (rassegna web)

Mario Draghi accolto alla Casa Bianca da un Biden largo di elogi. Si complimenta con il “grande amico e alleato”, racconta Ennio Remondino sul suo Remocontro: «Era difficile credere che Nato e Ue potessero andare di pari passo, era più probabile che si dividessero. Invece lei è riuscito a farle marciare allo stesso passo». “Sembra quasi la santificazione del premier italiano elevato a uomo di fiducia di Washington da questa parte dell’Atlantico”. Poi Biden prova a parlare all’ala europea del dissenso o almeno del dubbio: “Una Ue forte è nell’interesse anche degli Usa”.

Grande accoglienza per grandi sacrifici

Italia iper atlantica con qualche critica politica che si affaccia anche nel governo. Così Draghi, dopo le coccole di partenza, va al punto chiave: “In Italia e in Europa le persone vogliono la fine di questa macelleria, ci chiedono come arrivare alla pace“. Dunque, «dobbiamo utilizzare ogni canale per un cessate il fuoco e per avviare negoziati credibili».

Putin, dichiara il premier italiano, ha fallito nel tentativo di dividere l’occidente. La guerra, al contrario, ha “reso ancora più forti i legami tra Italia e Usa“. Ma sulla compattezza europea un po’ esagera. E ignorando Macron e altri, sull’Ue ha uno slancio di ottimismo: “Eravamo vicini, ora lo siamo ancora di più e sappiamo di poter contare sugli Stati uniti“.

A Roma il Pd si spella le mani ancor prima che il colloquio sia terminato

«Il messaggio di Draghi è chiaro e forte. Ci rappresenta», si riferisce sul Manifesto. Decisamente meno trionfalista la portavoce della Casa Bianca Psaki: “Siamo aperti a una soluzione diplomatica ma non vediamo nessun segnale in questo senso dalla Russia“. Quasi un de profundis alle belle intenzioni europee esposte da Draghi.

La discussione seria, inizia ovviamente quando si chiudono le porte. E si parte dal problema dei problemi: l’energia. Biden insiste per accelerate i tagli europei del gas russo, ma ha ben poco da proporre come alternativa. Gli Usa insistono che i rifornimenti di gas liquido ‘saranno fluviali’ e – iperbole dimenticata, super costosi . Una ‘non soluzione’ , visto che da noi il primo nuovo rigassificatore sarà pronto solo all’inizio del 2023 e il secondo non prima del 2024.

La cose che non saranno dette

Comunque vadano i colloqui negli Stati uniti, alcune cose che certo, per carità di patria verranno ignorare. L’unità dell’Unione, alla prova del petrolio, è meno blindata di quanto non appaia e a Roma la solidità della maggioranza soffre, denunciano ormai apertamente molti analisti di politica italiana da tutti gli schieramenti. Con Parlamento sul piede di guerra per l’assenza di Draghi prima della visita Usa, e una risicata ‘question time’ al senato il 19 maggio. Non per una vera informativa e senza possibilità di voto. E le tensioni montano pericolosamente.

Senza la Russia o contro la Russia?

Una cosa sembra sempre più evidente, leggo ancora sul quotidiano on line di Remondino: che Stati Uniti ed Europa si stiano organizzando per vivere senza la Russia. Meglio dire contro la Russia. Ma per riflesso questo significa anche senza: in alternativa, nessuna forma di partnership, come se non ci fosse”.

“Vertici del G7, di Nato, dei leader Ue, dei ministri degli Esteri, della Difesa, dell’Economia, dell’Energia dei paesi dell’Unione; continui bilaterali Usa/resto d’Europa e corsa di tutti a Kijv per incontrare Volodymyr Zelensky. E’ una stagione di summit, oltre che di guerra. Ma in nessuno di questi incontri viene posto il problema di come dialogare con la Russia. A onor del vero, in presenza od online, tutti sono passati per Mosca, scoprendo che parlare con Vladimir Putin è una perdita di tempo fino a che una sconfitta militare non lo renderà più realista”.

Tuttavia vivere senza la Russia non è così facile.

Questa riorganizzazione generale dell’Occidente è il frutto di una constatazione: comunque finirà l’invasione in Ucraina, Putin resterà a lungo presidente/dittatore di un paese cloroformizzato dal suo nazionalismo da XIX secolo. Ma nel XXI non si può tornare a dialogare con chi è il responsabile di ciò che stiamo vedendo da due mesi. In un certo senso la conseguenza sono i 13,6 miliardi di aiuti militari all’Ucraina, a marzo, più i 33 di aprile stanziati dall’amministrazione Biden.

Come sostiene Charles Kupchan, “l’Occidente non può permettersi di volgere le spalle alla Russia: c’è troppo in gioco”. Oltre alla guerra in Ucraina, continuano ad esistere aree di potenziale collaborazione come il controllo degli arsenali nucleari e convenzionali, i mutamenti climatici, una cauta e guidata correzione della globalizzazione.

Strategia di ‘contenimento’

Nei confronti della Russia “Washington avrà bisogno di una strategia ibrida di contenimento e coinvolgimento”, conclude Kupchan che insegna relazioni internazionali a Georgetown, l’università che forma i diplomatici americani. Un tempo chi entrava in diplomazia era “pale, male, Yale”, cioè bianco, maschio con una laurea alla protestante Yale. Georgetown è invece la più antica università cattolica d’America, fondata dai gesuiti: cura l’aspetto etico delle relazioni internazionali, non solo il suo crudo realismo.

Anche la diplomazia del nostro tempo richiede l’uso di entrambi gli strumenti. Nel caso della Russia occorre far pagare un prezzo alla sua brutalità, lasciando aperto uno spiraglio al compromesso. La questione non è solo isolare la Russia ma essere anche pronti ad aiutarla quando le sanzioni avessero effetto o Putin uscisse di scena. Approfittare della debolezza russa, come accadde dopo la caduta dell’Urss, sarebbe come ripetere lo stesso errore: agevoleremmo la carriera politica di un altro Putin.


Globalizzazione dei guai. Scompaiono gli impegni Usa con la Cina per Taiwan

Ieri, il “South China Morning Post” di Hong Kong ha aperto il giornale con una notizia che ha avuta poca eco sulla stampa occidentale. “Come se non bastasse la piaga aperta e purulenta della guerra ucraina, adesso il Dipartimento di Stato getta altra benzina sul fuoco, nel Mar Cinese meridionale, commenta Piero Orteca sul quotidiano diretto da Remondino. A Pechino, sono furibondi, perché nella scheda informativa del Ministero Usa, guidato da Antony Blinken, è sparito un preambolo essenziale. Che per i cinesi è, questione di vita o di morte. E cioè è stato cancellato l’impegno “a non sostenere l’indipendenza di Taiwan”.

Non solo, ma è stato fatto saltare anche metà del primo paragrafo del comunicato congiunto Usa-Cina, siglato nel 1979. Quel documento recita/recitava testualmente: “Gli Stati Uniti hanno riconosciuto il governo della Repubblica popolare cinese come l’unico governo legale della Cina. Riconoscendo la posizione cinese che c’è una sola Cina e che Taiwan è una parte della Cina”.

Accordi mutilati e autodifesa

“Invece, nella nuova versione elaborata dall’Amministrazione Biden, viene solo elogiata Taiwan, come democrazia leader e potenza tecnologica, “partner chiave degli Stati Uniti nell’Indo-Pacifico, condividendo valori simili e profondi legami commerciali ed economici”. Gli americani ammettono di non avere relazioni diplomatiche con l’isola, ma di curare contatti bilaterali e di essere interessati “a mantenere la pace e la stabilità nello Stretto di Taiwan”. Oltre a ciò, però, Washington aiuterà l’isola ad avere “una sufficiente capacità di autodifesa”. Espressione ambigua, perché già molti militari americani sono stanziati a Taiwan come “consiglieri”.

“Chi farà la prima mossa? Sembra che l’abbia già fatta Pechino, Secondo il “Global Times”, versione internazionale del “Quotidiano del Popolo”, a est e a ovest dell’isola si sono materializzate squadre aeree e navali cinesi. Erano composte da portaerei, incrociatori lanciamissili e fregate, per un’esercitazione “contro le forze secessioniste” appoggiate dagli americani e dai giapponesi. Gli Stati Uniti hanno risposto, spedendo nello Stretto di Taiwan il “Port Royal”, un incrociatore della classe “Ticonderoga”. Speriamo bene, conclude Orteca.


La giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh uccisa durante un raid israeliano a Jenin

La nota giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh, reporter da oltre venti anni nei Territori palestinesi occupati, è stata uccisa questa mattina durante una incursione dell’esercito israeliano nella città di Jenin, nel nord della Cisgiordania. Il suo collega Ali Samoudi,  inviato del quotidiano Al Quds, rimasto ferito in modo leggero, ha detto che ad aprire il fuoco nella loro direzione sono stati i militari israeliani, sebbene entrambi avessero ben visibile la scritta “Press” sul giubbotto antiproiettile. Israele da parte sua afferma che la giornalista è stata invece colpita da spari dei palestinesi e di aver avviato una indagine.

La giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh uccisa durante un raid israeliano a Jenin

I particolari da Michele Giorgio sul “Manifesto”. “Secondo le notizie disponibili al momento, Abu Akleh è stata raggiunta alla testa da un proiettile ed è stata portata d’urgenza in condizioni critiche all’ospedale di Jenin dove poco dopo è stata dichiarata mortaE’ uno shock per noi e per tutti i giornalisti che hanno lavorato con lei…». Molteplici conferme sui fatti. «Shireen stava coprendo gli eventi a Jenin, in particolare un raid israeliano nella città, quando è stata colpita da un proiettile alla testa», ha detto Nida Ibrahim, dirigente di Al Jazeera. L’emittente arabo qatariota parla di «palese omicidio, in violazione di tutte le norme internazionali, compiuto a sangue freddo dalle forze di occupazione israeliane».

Anche l’ambasciata statunitense in Israele e la missione dell’Unione europea a Gerusalemme hanno chiesto di fare piena luce sull’accaduto. L’Autorità nazionale palestinese punta decisa il dito contro l’esercito israeliano e chiede una indagine da parte della Corte penale internazionale.

Chi era Shireen Abu Akleh

Non c’è famiglia araba che non conoscesse la giornalista di Al Jazeera. Figura di spicco del servizio in arabo dell’emittente con sede in Qatar ha raccontano la Palestina degli ultimi 20 anni. Nata a Gerusalemme, Shireen Abu Akleh si iscrisse prima alla facoltà di Architettura dell’Università della Scienza e della Tecnologia in Giordania, per poi proseguire gli studi in giornalismo all’Università Yarmouk, sempre in Giordania. La reporter, anche con cittadinanza americana, secondo quanto riferisce la tv Al-Jazeera, dopo la laurea, tornò nei Territori palestinesi e iniziò a lavorare per alcuni media locali, tra cui Radio Voce della Palestina e la tv satellitare Aman.

Vera reporter di guerra

Dal 1997 lavorava con Al-Jazeera, tivù per la quale ha svolto servizi da Gerusalemme Est sui principali eventi accaduti nei Territori, come la Seconda Intifada, ma anche sulla politica israeliana. Ad Al-Jazeera è stata tra le prime corrispondenti dal campo, diventando famosa in tutto il Medio Oriente per i suoi reportage sul conflitto israelo-palestinese.

Il collega di Al-Jazeera, il producer Ali Samodi, che era con lei a Jenin e che è rimasto ferito, ha accusato l’esercito israeliano di aver aperto il fuoco sui giornalisti in modo deliberato. “Stavamo andando a seguire l’operazione dell’esercito israeliano quando hanno aperto il fuoco su di noi“, ha raccontato dopo essere stato dimesso dall’ospedale, «Un proiettile mi ha colpito. Il secondo proiettile ha colpito e ucciso Shireen».

La sua redazione ha pubblicato l’ultimo messaggio inviato dalla reporter all’ufficio di Ramallah questa mattina alle 6:13 (ora locale): “Le forze di occupazione stanno assaltando Jenin e assediano una casa nel quartiere di Jabriyat. Mi sto recando lì, vi darò notizie non appena il quadro sarà chiaro”.



  • Mai tanti morti tra i civili, donne e bambini, come a Gaza
    …e nel Tg1 delle 13 le aperture su Gaza, con poco rispetto dell’attualità, riguardavano ancora oggi le malefatte e le minacce di Hamas e soltanto dopo cronaca e immagini di stragi e macerie procurate dall’invasione israeliana. Ma l’esodo forzato dei palestinesi inseguiti dai carri armati israeliani verso l’Egitto non può che riportare alla mente quello negli stessi luoghi degli ebrei inseguiti dai carri del Faraone. Forse Israele non riuscirà a distruggere Hamas, ma è già riuscito a distruggere Gaza. (nandocan)
  • COP 28 a Dubai
    ”Il petrolio non è responsabile dei danni all’ambiente”. “Ci vuole più atomo per salvare il pianeta”. Con questi due clamorosi proclami si chiude la COP 28, a Dubaii. Un mastodontico summit che – invece di entrare nel merito dell’abbattimento delle emissioni di CO2 – ha lanciato una sorta di ”negazionismo camuffato”. Quel pensiero che non rigetta il problema (surriscaldamento), di cui anzi si mostra preoccupato; ma ne elude la soluzione agendo sulla negazione delle cause (combustione fossili) e alterazione dei rimedi (nucleare), per evitare cambiamenti radicali (drastica riduzione dell’energia da fonti fossili).
  • A che punto è la notte
    Come sentinelle abitiamo la notte di quest’epoca. Sapendo che la notte non è per sempre e l’alba arriverà. E sapendo, soprattutto, di non sapere quando arriverà.
  • Crosetto o scherzetto?
    Per il Ministro Crosetto, Halloween continua e così si diverte con uno scherzetto alla magistratura. La tecnica è quella solita della destra: scegliere di colpire i giudici a freddo; evocare come reale una presunta attività eversiva delle toghe con la formula‘’mi dicono che’’ senza citare fonti e fatti.
  • BBC mostra i resti di Gaza, li studia e li analizza, ed è racconto dell’orrore
    Quasi 100 mila edifici distrutti o danneggiati in tutta la Striscia di Gaza (la maggior parte nel Nord) dall’inizio dei bombardamenti israeliani. Questa, la tragica e scioccante contabilità, che emerge dal dettagliato report satellitare commissionato dalla BBC. Mentre le condizioni umanitarie fanno temere una seconda strage con devastanti epidemie.

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