“Cartabianca” censurata e a rischio chiusura “sotto il nobile cappello delle linee guida per il nuovo contratto di servizio che lega l’azienda allo Stato”?
Questa l’interpretazione di Vincenzo Vita sul “Manifesto” con il titolo, fantasioso e immaginifico che si rifa a una pellicola di tanti anni fa, “scene di caccia in bassa frequenza”. (…Baviera). E perché, si chiede il vecchio amico e collega (già sottosegretario alle Poste) “quando è ai suoi massimi di consenso con i telespettatori , avendo battuto ultimamente gli immediati concorrenti della serata (” Fuori dal coro” di rete quattro e “Di martedì” de La7?… Dagli altari alle polveri?”)
“Ovviamente – commenta Vita – il delitto è tutto politico: le interlocuzioni scelte non sono univoche, ci sono pensieri diversi e calca gli studi il conclamato nemico pubblico Alessandro Orsini (nessuno è perfetto, ma qui non conta).
“In epoca di liste di proscrizione, di disinteresse verso il 48% della popolazione che vuole la pace e non le armi, di dileggio bullistico verso chi dissente un po’ dalla linea bellicosa e subalterna alla Nato scelta a palazzo Chigi, Bianca Berlinguer va messa all’indice. Del resto, l’etichetta di putinismo è appiccicata alle vesti di chiunque non reciti il copione prestabilito, ivi compreso Papa Francesco”.
“Lo scorso mercoledì 4 maggio – questa la notizia di riferimento – la commissione parlamentare di vigilanza ha ascoltato in audizione l’amministratore delegato Carlo Fuortes. Già in tale sede è emersa, pur senza indicare titoli o nomi, l’ostilità verso i talk. Tuttavia, il discorso poteva essere un monito contro volgarità o calcolate esasperazioni, non il prequel di una restaurazione. Eppure, la lettura dei commentatori – chi entusiasta, chi critico- è stata pressoché univoca. “
Maurizio Corona?
E alla volgarità manifesta dell’abituale prologo con Maurizio Corona confesso di aver pensato anch’io, tanto che mi rifiutavo di ascoltarla per l’insopportabile e noiosissimo cattivo gusto che la contraddistingue(va). Ma l’interpretazione di Vincenzo Vita, all’esperienza e competenza del quale mi affido sempre volentieri, punta decisamente in altre direzioni, o meglio verso altri interrogativi.
“Sarà il direttore della apposita direzione degli approfondimenti Mario Orfeo a dire l’ultima parola? La Berlinguer è il capro espiatorio di una Rai in difficoltà? E non è stato irrituale l’incontro dell’ad -avvenuto a ridosso dell’audizione- con il sottosegretario alla presidenza del consiglio Roberto Garofoli? La Rai è definitivamente una costola del governo, come preconizzò la brutta legge del 2015 voluta da Matteo Renzi?“
“Insomma, conclude Vita, si sta perdendo una delle caratteristiche peculiari del servizio pubblico radiotelevisivo, prevista dalla riforma del 1975. La vecchia azienda monopolistica cambiò natura, ma a condizione di divenire il tempio del pluralismo. Se quest’ultimo tratto lascia il passo all’omologazione coatta, il contratto di servizio diviene un inutile orpello, in quanto è lo stesso servizio pubblico a cessare di esistere”.
Ecco la posta in gioco. La critica non deve mai sfociare nella censura. Si eviti qualsiasi tentazione coercitiva. La Rai si esporrebbe ad una inevitabile (e sacrosanta) polemica senza fine. Non si vuole proporre la beatificazione di Bianca Berlinguer, ma gli attacchi che subisce sono l’indice di un clima sgradevole: scene di caccia in bassa frequenza.
E ora…Casa Bianca: Da Piero Orteca su Remocontro l’ultimo commento sulla “guerra in Ucraina” (sempre più per procura?)
“Staccate la spina al Consiglio di governance della disinformazione”, tuona il Wall Street Journal, assaltando alla baionetta il “Ministero per la verità” voluto da Biden. Ormai la misura è colma e si moltiplicano le polemiche, sempre più feroci, su una mossa che per molti osservatori (ma anche per moltissimi cittadini), negli Stati Uniti, è un vero e proprio attacco alla libertà di stampa e di opinione.

Un boomerang di consensi
Cominciamo bene, dicono al WSJ, se il “Ministero per la Verità” si fonda su una colossale frottola, immaginiamoci il resto. Scrive Henninger: “L’Amministrazione Biden ha un sacco di problemi. L’Ucraina, l’inflazione, il confine col Messico, il senatore Joe Manchin (un democratico che blocca tutto n.d.r.). Il “Disinformation Governance Board”, cioè, in pratica, il “Ministero per la Verità”, DGB, è un’idea terribile. Staccate la spina e spegnetelo ora. La signora Jankowicz può tornare alle sue incursioni nel cabaret satirico, mentre il resto di noi può tornare a confrontarsi piacevolmente sui social”.
La verità della bugia
“Un boomerang, insomma, scrive Orteca, per il quale la Casa Bianca potrebbe pagare un conto salato, in termini di consensi. E farlo pagare anche al Partito Democratico. Daniel Henninger (giornalista di grande caratura, covincitore del Premio Pulitzer 2002) sostiene che dietro questo azzardo di Biden ci sono molte ragioni. Tutte politiche. Quando un “oligarca” americano come Jeff Bezos si prese il Washington Post, per una manciata di noccioline (250 milioni di dollari), nessuno ebbe da ridire. Come mai? Fatto sta che il WP ha continuato ad appoggiare costantemente (e ostentatamente) una certa linea politica, senza subire “pressioni”. Ora che però Elon Musk ha rilevato Twitter, nello Studio Ovale si sono accese tutte le lampadine rosse.
I social media, in linea teorica, possono spostare milioni di voti in un paio di giorni. Così, con la scusa della “sicurezza nazionale” e dei “rogue-States” (i cosiddetti “Stati-canaglia”) Biden, di fatto, si è inventato la censura “per difendere la democrazia”. Il Segretario alla Home Security, Alejandro Mayorkas, ha spiegato “che bisogna difendere i cittadini dalla disinformazione”, propagata da Iran, Russia, Corea del Nord e via discorrendo. Questi Paesi, aiutati dagli “untori della diffamazione”, parlano male degli Stati Uniti e di quello che combina Biden. E siccome, secondo Mayorkas, la gran parte degli americani sono mezzi deficienti o parzialmente lobotomizzati, gli credono pure.
Severo anche il giudizio espresso sulle “giustificazioni” della portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki, e dello stesso Ministro Mayorkas. La Psaki, parlando ovviamente a nome del Presidente Biden, ha detto ai numerosi giornalisti che la incalzavano, che il DGB non ha finalità politiche e “serve a difendere la patria”. Henninger giudica questa spiegazione patetica. La pezza è peggio del buco, insomma. “Se veramente ci crede – conclude il giornalista – allora pure lei, come Mary Poppins, pensa che i bambini siano saliti in cielo con una scala fatta di fumo”. Per quanto ci riguarda, consiglieremmo al Presidente Biden di rileggersi attentamente il Primo emendamento della Costituzione americana.
La libertà di stampa è sacra. A meno che gli Usa non siano, ufficialmente, in stato di guerra. Ma finora nessuno ce l’ha detto.
Ultranazionalismi pericolosi

Ha sorpreso nei giorni scorsi la vittoria, nelle elezioni dell’Irlanda del Nord (Ulster), dei nazionalisti del Sinn Féin. I quali, del resto, avevano già vinto le elezioni nella Repubblica d’Irlanda, o Eire. Ma quanto è avvenuto nell’Ulster desta impressione perché potrebbe condurre al cambiamento della struttura stessa del Regno Unito, di cui per l’appunto l’Ulster fa parte.
I repubblicani hanno conquistato 27 seggi, i lealisti del DUP 24. Maggioranza quindi risicata, e non sarà facile per la O’Neill governare. Anche perché l’ala più oltranzista degli unionisti ha escluso la collaborazione con un partito che ha approvato per molto tempo il terrorismo dell’IRA. Assisteremo senz’altro a un’intensificazione della parate unioniste con le loro tipiche bandiere arancione.
La cacciata degli inglesi
“Chi conosce un po’ la storia irlandese – spiega Michele Marsonet su remocontro, sa che da sempre il Sinn Féin è una formazione ultranazionalista, come testimonia il suo stesso nome che in italiano può tradursi con “Noi stessi” o “Noi soli”. E’ stato considerato per molto tempo il “braccio politico” dell’Irish Republican Army (IRA), il movimento che lottò armi in pugno contro la presenza inglese nell’Irlanda del Nord, e che venne perciò definito “terrorista”.
Molti hanno l’impressione che il Sinn Féin non abbia rotto del tutto con il passato. E, del resto, neanche potrebbe farlo, giacché il suo nazionalismo a tutto tondo impone di considerare l’unificazione dell’isola, e la definitiva cacciata degli inglesi dall’Ulster, quale obiettivo principale.
Pur avendo rinunciato ufficialmente alla lotta armata e ai metodi terroristici, ha continuato a mantenere una certa ambiguità, incarnata dal celebre Gerry Adams, presidente del partito fino al 2018. Dopo aver condannato ufficialmente un sanguinoso attentato dell’IRA, proprio Adams portò a spalla, durante il funerale, la bara di un attentatore dell’Irish Republican Army rimasto ucciso.
Ebbene, la sua vittoria elettorale nell’Irlanda del Nord potrebbe offrire l’occasione per realizzare tale progetto. Anche se si teme una ripresa della guerra civile a causa della prevedibile ostilità dei protestanti unionisti del DUP (Democratic Unionist Party), fedelissimi alla regina e al Regno Unito, che governano l’Irlanda del Nord da tempo immemorabile. Leader del Sinn Féin nell’Ulster è una donna, la 45enne Michelle O’Neill, che ha subito parlato di “momento storico per la nostra politica e per il nostro popolo”.
Il rischio è che gli estremisti cattolici e quelli protestanti tornino a scontrarsi nelle strade. Gli uni per favorire l’unificazione con l’Eire, gli altri per impedirla.
Una brutta gatta da pelare per Boris Johnson, che ha già un sacco di guai causati anche dai suoi comportamenti personali spesso oggetto di critiche feroci. Londra potrebbe essere costretta a governare direttamente l’Ulster, come ha fatto molte volte in passato, anche se il clima politico ora non favorisce tale soluzione.
Finale a Marnetto: l’Occasione
“Tra Russia e Occidente i discorsi sostituiscono i colloqui sulla crisi ucraina. Putin parla dalla Piazza del 9 Maggio. Ma di fronte a tanto sfoggio di potenza militare, il suo intervento adotta il registro della giustificazione. Volto a trasformare l’attacco dell’Ucraina in una legittima difesa (preventiva), per dimostrare che la Russia tiene ancora al diritto internazionale e non vuole rimanere nella parte del torto. Questo segnale di disagio ben si lega al discorso di Macron nell’anniversario dell’Europa. Che chiede di non umiliare la Russia, nella convinzione che una pace sia possibile solo se onorevole per tutti.
Finalmente una dichiarazione costruttiva verso la fine del conflitto. Ma soprattutto lungimirante, perché rilancia l’urgenza di realizzare una progressiva autonomia della UE da Washington. Ora Draghi deve confermare a Biden questa linea, senza provocargli una crisi da abbandono. Obiettivo non semplice.
Ma questa, conclude Massimo, è l’occasione per svincolarsi dalla soffocante tutela degli USA, che in cambio impongono i loro interessi. E costruire la pace in Ucraina per riconfigurare i rapporti con Russia (e Cina), facendo di un’Europa-Nazione una superpotenza irenica del diritto e del dialogo, per prevenire future crisi tra blocchi.