A fare la differenza nelle elezioni che hanno affidato a Lula il terzo mandato di Presidente “è stata la coscienza democratica della maggioranza dei 220 milioni di brasiliani, il loro timore di vedersi trascinati dall’estremismo di Bolsonaro in uno stato autoritario”, scrive l’amico Livio Zanotti su ildiavolononmuoremai.it. Ma il vantaggio di quasi due punti percentuali sul suo avversario, il Presidente uscente Jair Bolsonaro, che manterrà i pieni poteri fino alla fine dell’anno e non ha ancora riconosciuto la sua sconfitta, non “appare sufficiente a fargli superare i tanti contrasti che ha ancora sul suo cammino”. A cominciare da un parlamento in cui l’opposizione conserva ancora la maggioranza.
Lula è Presidente del Brasile ma potrà governare solo con il dialogo (da Livio Zanotti)
“Dovrà quindi mobilitare – continua Zanotti – tutte le sue celebrate abilità di negoziatore, disincantato e tenace, per trovare per quanto sempre effimere, le necessarie maggioranze parlamentari necessarie a far approvare i provvedimenti di legge: “un calvario”, nelle parole di Josè Dirceu, il più intimo e controverso dei suoi ex collaboratori. E’ infatti lo scabroso e compromissorio terreno da cui a suo tempo scaturirono gli scandali corruttivi, che debilitarono la sua seconda presidenza e ancora oggi rendono inviso il PT anche a una parte non trascurabile dell’opinione pubblica progressista. C’è da credere che il governo procederà a fari accesi”.
“Lula – ricorda Livio Zanotti – ha promesso di combattere l’inflazione per mezzo di accordi sul controllo dei prezzi, l’adeguamento dei salari operai al costo di vita, la stabilizzazione dei prezzi dell’energia parametrati sui costi di produzione, maggiore progressività del prelievo fiscale, garanzie per i popoli originari e la difesa dell’ambiente (Amazzonia) lasciati da Bolsonaro nelle mani della speculazione, sussidi per le fasce sociali più necessitate: tutte misure per ciascuna delle quali dovrà trovare pazientemente i voti di deputati e senatori disposti a farle diventare leggi dello stato.
“Jair Bolsonaro, intanto, si può presumere che non resterà a guardare il magnifico panorama dalla sua più che ampia abitazione di Barra da Tijuca, il quartiere fronte-mare più esclusivo di Rio de Janeiro (che ha votato massicciamente per lui). Né che trascurerà il suo ufficio sacerdotale nella chiesa evangelica, che costituisce anche una base politica ed elettorale imprescindibile (sebbene a prima vista qualche suffragio si direbbe che Lula glielo abbia rosicchiato). Non è nel suo temperamento”.
Per la prima volta nella storia l’America Latina ha governi marcatamente progressisti,
Tuttavia Lula può contare “su un equilibrio regionale per lui favorevolissimo, inedito: per la prima volta nella storia,dall’Argentina al Cile, alla Colombia, al Messico, l’America Latina ha governi marcatamente progressisti, che pur con qualche contraddizione rappresentano oggi insieme al Brasile un poderoso progetto di sviluppo convergente, sebbene non necessariamente unitario. Ravvicinati dalle affinità politiche, quantomeno a livello internazionale, la loro iniziativa presenta grandi possibilità di acquisire una capacità di crescita senza precedenti.
“Per sfruttarle pienamente, anche nei suoi riflessi interni, Lula dovrà però riuscire a superare se stesso fino a raggiungere quel minimo di riconciliazione nazionale scientemente sabotata dall’estremismo di Bolsonaro. Un ammodernamento delle società e dei sistemi produttivi latinoamericani adeguato al cambiamento d’epoca in atto, è meno credibile senza l’apporto del Brasile“.
Israele al voto: ancora Netanyahu in corsa e questione palestinese assente

Piero Orteca su Remocontro
Per i cattolici il primo novembre è la festa di Tutti i Santi, quelli senza nome sul calendario. Qualcuno di loro forse si dovrebbe occupare dei fratelli ebrei, sempre la bibbia a unirli, e anche degli altri cittadini che dio lo chiamano Allah, e anche di quelli che non lo chiamano affatto, affinché alle quinte elezioni in tre anni e mezzo, finalmente esca un governo più o meno presentabile, ma almeno certo. Martedì elettorale in Israele più diviso e più estremizzato che mai col possibile ritorno dell’ex premier Netanyahu che della involuzione democratica nello ‘stato ebraico’ sottratto agli altri cittadini non ebrei, è stato il principale artefice.
Referendum Bibi tra governo e galera
Come nelle ultime tornate, queste elezioni assomigliano molto a un referendum sulla figura dell’ex primo ministro Benjamin ‘Bibi’ Netanyahu, al governo dal 2009 al 2021 e ora sotto processo per corruzione, frode e abuso d’ufficio. Anche se il partito che guida è dato in testa ai sondaggi, non è detto che la sua coalizione riuscirà ad ottenere i 61 seggi che servono per la maggioranza. Insomma, difficile che il voto possa porre fine allo stallo politico in cui Israele si trova da anni.
Questioni di confine
La sicurezza come sempre al centro della campagna elettorale, ma questa volta anche l’economia con qualche apprensione in più. Il costo della vita è in continuo aumento e le prospettive internazionali anche degli USA, che per Israele rappresentano il fornitore chiave di aiuti e armamenti, oltre che di tutela politica. Sul tema della sicurezza, storicamente il fulcro di ogni sfida elettorale, ora che l’ondata di violenze che ha interessato i territori palestinesi nelle ultime settimane ha reso il tema di nuovo attuale, per la parte palestinese questa crisi contabilizza quasi 150 uccisi quest’anno.
Palestinesi scontro, accordo col Libano
Se sul fronte palestinese la situazione rimane tristemente invariata, la grande novità di questi giorni è nei rapporti con il Libano, con cui Israele è formalmente in guerra dal 1948. Il voto si svolgerà ad appena cinque giorni dalla firma di un accordo tra i due Paesi sui confini marittimi (aspramente criticato da Netanyahu e fortemente voluto dal premier uscente Lapid). Ma gli elementi inediti non finiscono qui segnala ISPI.
L’ultra destra nella destra?
«Come mai prima d’ora, questa tornata elettorale è segnata dall’ascesa dell’alleanza dei partiti di estrema destra, alleati di Netanyahu e noti per la loro ideologia suprematista». Con il pubblico israeliano già poco incline all’idea di riprendere i negoziati coi palestinesi, un altro governo Netanyahu o peggio, romperebbe ogni spazio di trattative.
Cosa potrebbe accadere?
Vero ago della bilancia la minoranza araba con cittadinanza israeliana, che rappresenta circa un quinto della popolazione. «Spaventati dall’ascesa dell’estrema destra ma disillusi dal sistema politico israeliano, gli elettori arabi potrebbero però disertare le urne, spianando così la strada a un nuovo governo a guida Netanyahu».
Con queste premesse, ammettendo che ‘la destra e oltre’ possa ottenere i 61 seggi che fanno la maggioranza, ancora una volta la prospettiva di un governo destinato a durare poco.
R.A.V.E.

di Massimo Marnetto
La Presidente Meloni si dichiara ”lontana” dai neofascisti che hanno sfilato a Predappio. E ci mancherebbe: è il minimo che possa fare dopo aver giurato sulla Costituzione antifascista. Indigna invece la sua inerzia nel pretendere l’applicazione della legge contro l’apologia del fascismo, ostentatamente messa in atto a Predappio. Eppure le camicie nere non sono state ”disturbate” dalla Polizia, benché in plateale flagranza di reato per la presenza di oltre duemila persone, vessilli fascisti e chiassoso sfoggio di saluti romani.
Aspettiamo di vedere l’inflessibile Ministro Piantedosi – determinato nel contrastare (giustamente) gli sballati abusivi del capannone di Modena – intervenire con altrettanta prontezza per disperdere i prossimi r.a.v.e. (Raduno Amanti Ventennio Eversivo).
- La differenzaÈ infatti enorme la differenza tra la guerra e la pace. E la tragedia è proprio questa, che la guerra si concede una pausa per riprendere ancora più incondizionata di prima. E ciò perché questa non è neanche degna di essere chiamata guerra, perché le guerre si fanno per ottenere qualcosa, che è la posta in gioco della guerra. Invece questa è una guerra che ha per fine la negazione reciproca dell’esistenza dell’altro. E attraverso un rovesciamento di ciò, nella costruzione di una umana convivenza tra i membri del popolo palestinese e i cittadini ebrei dello Stato di Israele, che può istituirsi, non una tregua, ma la pace
- ScendereMi tocca difendere il Ministro Lollobrigida, perché la sua richiesta di fermata del treno in ritardo, per proseguire in auto, era motivata da un interesse pubblico istituzionale, prevalente su quello privato degli altri passeggeri. Ovvero la sua presenza come Ministro – cioè a nome dello Stato – a Caivano, per inaugurare un parco ad alto valore simbolico, come riscatto di un territorio abbandonato al degrado e alla criminalità. (Marnetto)
- La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con IsraeleLa feroce rappresaglia di Israele nella striscia di Gaza, accompagnata da un’ aggressiva reazione dei coloni nella Giordania occupata, rischia ora di compromettere, a vantaggio di Hamas, anche il fragile compromesso con i paesi arabi moderati, avviato col “patto di Abramo” e la compiaciuta assistenza degli Stati uniti. La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele.I Paesi arabi moderati, gli alleati di sempre, il lato debole della geopolitica americana prigioniera di Netanyahu in Medio Oriente. Prima tra tutti la Giordania. Re Abdullah II di fronte alla devastante reazione israeliana ai massacri di Hamas, sta per rivedere la trentennale ‘pacificazione’ con Tel Aviv, ma anche le relazioni privilegiate con Washington
- Professione reporter dopo il 7 ottobre. I dubbi di Eric Salerno (e non soltanto)Come è stata l’informazione dal 7 ottobre a oggi, ossia da quando i palestinesi –‘militanti di Hamas’, ‘terroristi’, ‘nazisti’, ‘criminali di guerra’, ‘partigiani’, ‘combattenti per la libertà’ o altri termini scelti da chi giudicava e raccontava – hanno dato l’assalto a Israele? Cosa sono oggi i giornalisti o fotografi ‘embedded’? Cosa rappresentano i palestinesi arabi che lavorano per i grandi media; giovani o meno che raccontano da Gaza? E la stampa israeliana? Quella italiana?
- PazzoGuardo l’Argentina e penso all’Italia. Nella nazione del Sud America la povertà si è talmente diffusa da risucchiare nell’angoscia metà della popolazione. I poveri prima smettono di votare (astensione), dopo scelgono il ”pazzo” più distruttivo del sistema che li ha affamati. E questo processo è più rapido se c’è l’elezione diretta del presidente (o del premier). (Marnetto)