Noè 2020

(“Noè, un arcobaleno!”, foto Alessandro)
Rannuvolato in volto
taceva il cielo sulle nostre ubbie
per questioncelle vane e dispettose
piccole o grandi cose
che stentavamo ancora a dipanare,
quando dall'alto prese a brontolare
prima in sordina, poi sempre più forte:
nessuno giochi in borsa con la morte ,
per la vita si chiudano le porte.

Tuonava il cielo sulle nostre ubbie
per polemiche vane e dispettose
piccole o grandi cose
che stentavamo ancora a dipanare,
quando dall'alto prese a diluviare
la lavata di capo universale.

(21 dicembre 2020)

Leggi anche:

  • La differenza

    Raniero La Valle per Costituente Terra

    Newsletter n. 140 del 23 novembre 2023

    Cari amici,
    è stato raggiunto un accordo per una tregua di quattro giorni nella carneficina di Gaza. L’intesa prevede lo scambio di cinquanta ostaggi in mano ad Hamas con 150 profughi palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Inoltre, sarà consentito l’ingresso nella striscia di “centinaia di camion di aiuti umanitari, medici e carburante”. All’intesa ha dato la sua adesione anche Hezbollah. I negoziati continuano ma Netanyahu ha avvertito che dopo la pausa la guerra continuerà. Il ministro degli esteri, Eli Cohen, ha spiegato che “Il significato del ‘cessate il fuoco’ è che dopo il fuoco non c’è una sua ripresa. Noi parliamo invece di una pausa il cui scopo è la liberazione di ostaggi. Sono due concetti del tutto diversi. La differenza è enorme”.

    È infatti enorme la differenza tra la guerra e la pace. E la tragedia è proprio questa, che la guerra si concede una pausa per riprendere ancora più incondizionata di prima. E ciò perché questa non è neanche degna di essere chiamata guerra, perché le guerre si fanno per ottenere qualcosa, che è la posta in gioco della guerra. Invece questa è una guerra che ha per fine la negazione reciproca dell’esistenza dell’altro. E attraverso un rovesciamento di ciò, nella costruzione di una umana convivenza tra i membri del popolo palestinese e i cittadini ebrei dello Stato di Israele, che può istituirsi, non una tregua, ma la pace.

    Nel sito pubblichiamo due letture della crisi, una di Marcella Delle Donne, Guerra e Vendetta”, l’altra è un intervento di Raniero La Valle Delenda Carthago” a un convegno sulla Palestina tenutosi il 18 novembre alla Casa delle Donne di Roma.

    Con i più cordiali saluti,
     Costituente Terra (Raniero La Valle)


  • Scendere

    di Massimo Marnetto

    Mi tocca difendere il Ministro Lollobrigida, perché la sua richiesta di fermata del treno in ritardo, per proseguire in auto, era motivata da un interesse pubblico istituzionale, prevalente su quello privato degli altri passeggeri. Ovvero la sua presenza come Ministro – cioè a nome dello Stato – a Caivano, per inaugurare un parco ad alto valore simbolico, come riscatto di un territorio abbandonato al degrado e alla criminalità. 

    Se il Ministro fosse sceso per tornare a casa, allora sì che ci sarebbe stato un privilegio, vista la pretesa di non condividere il danno del ritardo con gli altri passeggeri. Ciò detto, Lollobrigida ha dato tali e tante manifestazioni di pochezza e incapacità, da risultare inadatto al ruolo di Ministro. Per questa sua ”ignoranza” (ipse dixit) dovremmo chiedergli noi di scendere: non da un treno, ma dalla politica.


  • La Giordania ‘americana’ dice basta e potrebbe rompere con Israele

    La feroce rappresaglia di Israele nella striscia di Gaza, accompagnata da un’ aggressiva reazione dei coloni nella Giordania occupata, rischia ora di compromettere, a vantaggio di Hamas, anche il fragile compromesso con i paesi arabi moderati, avviato col “patto di Abramo” e la compiaciuta assistenza degli Stati uniti (nandocan).

    I Paesi arabi moderati, gli alleati di sempre, il lato debole della geopolitica americana prigioniera di Netanyahu in Medio Oriente. Prima tra tutti la Giordania. Re Abdullah II di fronte alla devastante reazione israeliana ai massacri di Hamas, sta per rivedere la trentennale ‘pacificazione’ con Tel Aviv, ma anche le relazioni privilegiate con Washington

    Giordania arrabbiata

    Ieri il primo ministro giordano Bishr al-Khasawneh, con una durezza inusuale e significativa per la diplomazia del regno, ha ricordato a Netanyahu che l’escalation di attacchi dei coloni ebrei, nella Cisgiordania occupata, deve cessare. E lo stesso deve avvenire per i luoghi santi islamici e cristiani, riferisce il The Jordan Times. E per la prima volta il premier ha parlato di una «linea rossa che non si dovrà varcare e per la quale la Giordania ha tolleranza zero». E queste sono parole che un esponente del governo giordano non pronunciava dal 1994, da quando, cioè, si firmò il trattato di pace con Tel Aviv, che sistemava il contenzioso risalente alla guerra dei Sei giorni.

    La voce di Re Abdullah

    I messaggi del premier sono ovviamente la voce di re Abdullah II, e rappresentano anche un monito per la Casa Bianca. «La Giordania reagirà a qualsiasi tentativo israeliano di sfollare i palestinesi come se fosse una dichiarazione di guerra e una violazione del trattato di pace giordano-israeliano». E Khasawneh ripete chiaramente: «Se Israele sposta con la forza i palestinesi o crea un ambiente che porta al loro sfollamento forzato, la Giordania lo considererà una dichiarazione di guerra e una violazione materiale del trattato di pace».

    Il Re a Biden

    Insomma, il Re di Giordania, Abdullah II, fa capire anche e soprattutto a Biden, alleato/succube, che se Netanyahu dovesse perseguire qualche occulto disegno di «pulizia etnica», in Cisgiordania, la sua risposta ‘sarebbe pronta’. Amman che straccia il Trattato di pace con Israele, riportando trent’anni indietro l’orologio della storia. Anche se poi, alla prova dei fatti, bisognerebbe fare i conti con molti altri fattori di ‘cointeressenza’ tra i due Paesi, come le risorse idriche.

    Pulizia etnica tra Gaza e Cisgiordania

    Il sospetto che i ‘rumors’ su piani israeliani di «trasferimento di massicce quote della popolazione palestinese», possano improvvisamente materializzarsi. Non solo chiacchere, ma segnali preoccupanti. Sospetti anche a Washington se Biden e Blinken si sono preoccupati di ribadire, ripetutamente, «che i palestinesi sfollati torneranno nel Nord di Gaza». E negli ultimi giorni, la Casa Bianca è tornata a ripetere il suo invito-avvertimento al governo israeliano, per quanto riguarda la Cisgiordania: «frenate l’arroganza e la violenza dei coloni contro i residenti palestinesi».

    Israele solo ebraico e nuova Nakba?

    Ma secondo molti analisti, all’interno dell’establishment dello Stato ebraico, esiste una lobby politica che ipotizza soluzioni radicali, come i «trasferimenti di massa»,  un’altra tragica Nakba, l’espulsione di una intera popolazione dalle sue terre. Un recente articolo di Gila Gamliel, Ministro israeliano per l’Intelligence, apparso sul Jerusalem Post, sembra proprio dare ragione ai timori espressi dalla Giordania. La Gamliel boccia, senza esitazioni, un ritorno dell’Autorità nazionale palestinese a Gaza, dopo la fine delle ostilità. Propone, invece, il reinsediamento all’estero degli ex residenti nella Striscia. Un’operazione che dovrebbe essere finanziata dalle Nazioni Unite

    Per i palestinesi il deserto

    Un esodo da Gaza, imposto ai palestinesi, che pare sia già stato oggetto di colloqui, all’inizio del conflitto, col Presidente egiziano El Sisi. Che avrebbe rifiutato. Le voci non verificate riferiscono di possibili trasferimenti nel deserto del Sinai. Tra follie geopolitiche e disumanità, il tema rappresenta uno dei nodi più scottanti da risolvere per Netanyahu. E per Biden e anche per un bel pezzo di occidente affiliato. Con gli alleati storici sempre più diffidenti, quasi prossimi ‘ex’. E i divorzi sono sempre guai.

     E l’esercito giordano si muove

    Concludendo la sua intervista con Al Jazeera, il premier giordano Khasawneh ha detto che i movimenti dell’esercito di Amman, nella Valle del Giordano, che così rende pubblici anche ai disattenti, «sono stati fatti per evitare infiltrazioni».

    E che i tentativi dei politici israeliani, di separare Gaza dalla Cisgiordania e indebolire le autorità palestinesi «non produrranno né stabilità né pace e non saranno trascurati».


  • Professione reporter dopo il 7 ottobre. I dubbi di Eric Salerno (e non soltanto)

    Eric Salerno (New York, 1939), giornalista, inviato speciale, esperto di questioni africane e mediorientali, è stato corrispondente del Messaggero da Gerusalemme per quasi trent’anni. Nel 1961 ha portato i Peanuts di Charles M. Schulz in Italia. Così è presentato da “Il Saggiatore”, editore dei suoi libri più recenti. E tra le sue pubblicazioni ricorda: Guida al Sahara (SugarCo, 1974), Fantasmi sul Nilo (SugarCo, 1979), Israele. La guerra dalla finestra(Editori Riuniti, 2002), Genocidio in Libia (manifestolibri, 2005), Mosè a Timbuctù (manifestolibri, 2006). Per il Saggiatore sono usciti Uccideteli tutti (2008), Mossad base Italia (2010), Rossi a Manhattan (2013), Intrigo (2016) e Dante in Cina (2018).

    da Remocontro

    Ricordo come se fosse ieri quando mio figlio mi disse secco: «Sei un dinosauro. Rappresenti un ottimo esempio di un mestiere che non c’è più. Giornalista no, farò un’altra cosa nella vita». Aveva ragione. Guardando con un minimo di distacco il mondo di oggi si capisce che il nostro mestiere –quello del giornalista che va a vedere, cerca di capire e poi racconta– non è lo stesso di una volta. E si capisce anche perché difficilmente potrà tornare a essere affascinante e forse onesto come era o poteva essere in passato. E anche perché difficilmente, nonostante o per colpa dei progressi nel mondo della tecnologia delle comunicazioni, potrà salvarsi e fare un balzo avanti.

    Il ‘dopo 7 ottobre’

    Come è stata l’informazione dal 7 ottobre a oggi, ossia da quando i palestinesi –‘militanti di Hamas’, ‘terroristi’, ‘nazisti’, ‘criminali di guerra’, ‘partigiani’, ‘combattenti per la libertà’ o altri termini scelti da chi giudicava e raccontava – hanno dato l’assalto a Israele? Cosa sono oggi i giornalisti o fotografi ‘embedded’? Cosa rappresentano i palestinesi arabi che lavorano per i grandi media; giovani o meno che raccontano da Gaza? E la stampa israeliana? Quella italiana?

    Bravi o non bravi li ammazzano lo stesso

    Prima di andare avanti, una cifra. Secondo il CPJ, Committee to Protect Journalists – almeno 40 giornalisti e personale del settore informazione sono morti a novembre nella guerra di Gaza: 35 palestinesi, 4 israeliani e 1 libanese. Otto giornalisti sarebbero rimasti feriti. Tre ‘dispersi’. È un numero altissimo anche se non è chiaro se tutti i palestinesi morti erano effettivamente in servizio o si trovavano a casa e sono finiti sotto le macerie dei massicci bombardamenti israeliani della Striscia. È comunque significativo che le vittime sono tra le popolazioni in guerra. I relativamente pochi corrispondenti o inviati italiani hanno raccontato il conflitto dalle retroguardie. Come anche gli inviati dei media internazionali: giornali, agenzia di stampa o fotografiche, radio-tv e i giornalisti freelance, quelli che vendono reportage scritti o fotografici ai media più paganti nella speranza di rifarsi delle spese, guadagnare qualcosa e possibilmente andare avanti con il mestiere.

    Il passato per scoprire se esiste futuro

    Uno sguardo al passato consente sempre di capire meglio il presente. È così anche e soprattutto per il conflitto palestinese-israeliano. Ricordo quando grandi inviati italiani partivano per raccontare una guerra distante o relativamente distante. Il mondo, ovviamente, era un altro. I mezzi di comunicazione altre ancora. «Per cablo dal nostro corrispondente»scriveva orgoglioso il quotidiano romano Paese Sera negli anni ’50 quando era stato superato il telegrafo ma ancora non veniva utilizzato il telefono per comunicare con il giornale. L’inviato spesso veniva scelto tra quelli del giornale che avevano seguito i conflitti precedenti della stessa area. Nel suo bagaglio, oltre agli abiti utili, portava una conoscenza approfondita del luogo dove andava, o tornava, a raccontare.

    I fatti costruiti a tavolino

    Anni fa, una giovane, ora famosa, collega italiana approdata per la prima volta a Gerusalemme mi chiese: «Cosa è la cosa più importante da tenere a mente per raccontare Israele e la Palestina?». Risposi secco: «La scelta e l’uso delle parole». Ed è così ancora oggi. Indispensabile, forse più di allora, capire sensibilità e giochi di propaganda. Individuare termini che rispecchiano fatti obiettivi e altri che sono stati costruiti a tavolino. Propaganda o verità. In pace o in guerra. Benjamin Netanyahu, il premier oggi molto contestato da una parte considerevole dello stesso pubblico israeliano, è sempre stato un maestro nell’uso strumentale delle parole. Fu lui il primo a definire ‘terroristi’ i combattenti per la libertà che portarono la Francia a rinunciare alla sua colonia algerina. E sono stati per lui da sempre, considerati terroristi i palestinesi che lottano con le armi per impossessarsi di almeno una parte della terra che considerano ancestrale.

    Molti, nuovi e vecchi, sono gli aggettivi che si potrebbero usare, con onestà giornalistica, per definire leader e seguaci di Hamas, integralisti islamici votati alla distruzione di Israele e che soltanto tatticamente, anni fa, si dissero disposti ad accettare una convivenza pacifica con il popolo nemico.

    Ex corrispondenti

    Il 7 ottobre il giornalismo fu bruscamente svegliato dalla sua indifferenza o, se vogliamo, dalla sua incapacità oggi di raccontare non solo grandi crisi e guerre ma anche le pause tra un conflitto e l’altro. Pensionamenti, prepensionamenti e altro avevano mandato a riposo molti nostri colleghi padroni o quasi della memoria storica. Nelle redazioni si sono cercati i cosiddetti esperti: colleghi che sapevano o credevano di sapere, inviati di lungo corso anche se non erano mai stati in Medio Oriente; ex corrispondenti, capaci di raccontare ma non necessariamente aggiornati. Il mondo dell’informazione era in crisi. Nei talk show, spesso privi di voci competenti, propaganda di parte si mischiava alle analisi obbiettive. Per oltre un’anno schermi tv e radio, la carta stampata o i siti online dei quotidiani si erano concentrati sulla guerra in Ucraina con l’aiuto spesso di giornalisti esperti che non avevano mai visitato i luoghi del conflitto.

    A ottobre è accaduta una cosa simile anche se molti reporter avevano almeno sfiorato, in passato, la Terra santa. Alcuni sapevano leggere tra le righe della propaganda. Altri parlavano, analizzavano ma sempre attenti a non farsi definire anti-semiti, un termine esasperato e affibbiato a chi osa criticare lo stato d’Israele.

    Censura e autocensura

    Israele è sicuramente lo stato più democratico del Medio Oriente. La sua stampa, in tempi di pace, rende relativamente facile il lavoro del giornalista anche italiano. Le posizioni sono chiare. Analisi e critiche sono sovente sufficienti per capire. In tempi di guerra, come oggi, ambiguità e omissioni sono normali anche perché subentra la censura, quella militare, o l’autocensura dovuta alla lotta in corso. Nel piccolo mondo di Gaza, censura e autocensura sono uno strumento della lotta impari tra lo Stato che occupa e la vittima.

    Quello che viene mostrato

    Il reporter italiano, dalla sua postazione in Israele, vede e racconta quello che può o ciò che gli viene mostrato. E la narrativa rischia di specchiare una versione di parte. Sta al giornalista capire. E per cercare di farlo, come in passato, avrebbe bisogno di tempo, delle spese pagate, di uno stipendio e, perché no, della sicurezza personale che molti inviati in zone di guerra avevano anni fa grazie ad una assicurazione pagata dal proprio giornale o rivista o rete radio-tv. Sono molto distanti i tempi in cui l’inviato speciale, il reporter di guerra, era considerato un testimone da salvaguardare e non un obbiettivo.

    E il racconto diventa bersaglio

    Le cose sono cambiate in Israele-Palestina. Fotografi, reporter sono spesso nel mirino soprattutto quando rappresentano o sono vicini, in qualche modo, a una delle parti in conflitto. O possono raccontare – compito nostro – anche la versione dell’altro. E a questo proposito, un’altra realtà che troppo spesso è un enorme handicap: lo spazio. Per raccontare, spiegare, cercare di far capire, essere professionalmente onesti non bastano, ovviamente, un tweet, un video di cinque minuti o un solo reportage scritto di mille o duemila battute, spesso molto di meno.

  • Pazzo

    di Massimo Marnetto

    Guardo l’Argentina e penso all’Italia. Nella nazione del Sud America la povertà si è talmente diffusa da risucchiare nell’angoscia metà della popolazione. I poveri prima smettono di votare (astensione), dopo scelgono il ”pazzo” più distruttivo del sistema che li ha affamati.  E questo processo è più rapido se c’è l’elezione diretta del presidente (o del premier). 

    Tutte le moderne dittature sono nate dalla fame diffusa. Chi vuole la dittatura sa che deve prima espandere la povertà, per poi aizzarla contro la democrazia. Siamo su questa china. La destra taglia sussidi e sanità pubblica, precarizza il lavoro e umilia i salari, salvaguardando solo i ricchi. Non si può chiedere buon senso a chi è esasperato dall’ingiustizia.


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