
(meditando Montaigne)“Nei miei viaggi, per imparare sempre qualcosa dalla consuetudine con altri (che è una delle più belle scuole che ci possa essere) tengo questo sistema, di portare sempre coloro, coi quali mi trovo a conversare, agli argomenti che essi conoscono meglio” (Saggi,I, XVII, pag.88).
“J’observe en mes voyages cette practique, pour apprendre tousjours quelque chose par la communication d’autruy (qui est une des plus belles escholes qui puisse estre), de ramener tousjours ceux avec qui je confere, aux propos des choses qu’ils s‡avent le mieux” (Essais,I,XVII).
A conversare non ho mai imparato.
(Luglio 1991). A conversare come si deve, confesso che non ho mai imparato. Bisognerebbe sapere ascoltare tutto con attenzione, anche quando non ci coinvolge immediatamente, con la pazienza del cercatore d’oro che di buon grado setaccia tonnellate di fango per una pepita improbabile. Bisognerebbe far credito all’interlocutore della capacità di sorprenderci con qualcosa di interessante, cercare con tenacia la vena preziosa nella miniera di argomenti banali e spesso noiosi di cui è fatta una conversazione comune.
Io invece non sono curioso se non di ciò che è già entrato a far parte dei miei interessi, intellettuali o semplicemente professionali. Converso volentieri soltanto con pochi amici e ho pochi amici proprio per questo motivo. Del resto, anche con loro seguo piuttosto il filo del mio ragionamento che il loro. Mi capita perfino di annuire meccanicamente mentre sto pensando a tutt’altro, e di dover poi recuperare a fatica l’oggetto della conversazione.
Al telefono sto il meno possibile, a meno che si tratti di lavoro o di qualche faccenda che mi preme. Conosco persone capaci di chiacchierare brillantemente per ore e incapaci di leggere attentamente un libro dall’inizio alla fine. A me succede esattamente il contrario, forse perché i libri che leggo si trovano già nel mio “percorso” intellettuale.
La fatica di “stare in società”
Se la mia “scuola” dipendesse da quella consuetudine con altri a cui incoraggia giustamente Montaigne, credo che sarei ancora piuttosto ignorante. Ammetto, insomma, che non so “stare in società”. A mia discolpa posso dire che non è facile imparare dalle conversazioni occasionali o salottiere qualcosa per cui valga la pena di affaticarsi. C’è insomma, o almeno così mi pare, una sproporzione tra le energie richieste da una conversazione ordinaria e l’arricchimento che si riceve.
Ma può ben darsi che questa sia solo la mia esperienza, che un giudizio così severo dipenda dalla mia natura introversa e dall’abitudine, coltivata fin dall’infanzia, al monologo interiore piuttosto che al dialogo. Al monologo interiore, ma potrei dire anche a quello “esteriore”, perché mi piace esprimere ad alta voce pensieri, commenti, valutazioni. E magari non fosse così, perché da questa abitudine ho tratto nella mia vita assai più danni che vantaggi.
Amicizia e dissimulazione
Tutti sanno che per farsi degli amici occorre molta dissimulazione e a volte qualche simulazione benevola. Ebbene, io non solo sono avarissimo di complimenti (se non m’escono proprio dal cuore), ma per un bisogno irresistibile di dire ciò che penso, specie quando si tratta di criticare l’autorità, trascuro sia la diplomazia che la più elementare prudenza.
Così, se vengo sorpreso o stimolato da una notizia o da una lettura, o da uno spettacolo, ho subito voglia di commentare ad alta voce, di comunicare le mie reazioni, anche a costo di infastidire il malcapitato che si trova nella medesima stanza immerso in tutt’altre faccende.
Può capitare ad esempio che, mentre i miei familiari stanno conversando per conto loro su tutt’altro argomento, io mi introduca del tutto a sproposito con l’oggetto delle mie letture o riflessioni solitarie. Poiché mi conoscono e mi vogliono bene, loro reagiscono con una risata, ma ho dovuto imparare a controllarmi nell’ambiente di lavoro dove i colleghi sarebbero di sicuro meno comprensivi.
Un insaziabile super Io
Immagino che tutto questo si debba al modo in cui sono cresciuto, rimuginando giorno e notte, fin da bambino, su cosa dire o fare per soddisfare un insaziabile super Io. Un po’ più di compassione per me stesso e per i miei limiti umani, un po’ meno di perfezionismo e di sensibilità ai complessi di colpa avrebbero contribuito a sdrammatizzare il confronto. Con la mia coscienza anzitutto, ma poi anche col prossimo.
Oggi sono perfettamente consapevole che questo mio appellarmi continuamente alla coerenza intellettuale e morale, questo condannare a ogni passo mediocrità e ipocrisia, il rigorismo che finisce prima o poi per far capolino nelle mie osservazioni valgono forse a ottenere l’approvazione, talvolta la stima, ma non la simpatia dell’ambiente in cui vivo. Quanto a correggermi, credo che sia troppo tardi.
Il piacere di conversare
Detto questo, devo anche aggiungere che nelle rare occasioni in cui mi sono trovato di fronte ad un carattere simile al mio, capace cioè di scoprirsi e raccontare di sé con imprudente spontaneità, la cosa non mi è affatto dispiaciuta, tutt’altro. Quando mi accorgo che l’interlocutore abbassa lo scudo e abbandona le solite noiose schermaglie verbali, ecco che l’interesse si accende e il piacere di conversare comincia.
Quello di aprirsi a un dialogo senza difese è un viaggio non privo di rischi, che pochi hanno il coraggio di affrontare, perché può capitare involontariamente di offendere e di essere offesi. Richiede un grado di tolleranza e di umiltà, di consapevolezza dei propri limiti e altrui, che la nostra immaturità emotiva stenta a concederci.
Ma, una volta scelto l’interlocutore adatto, è un viaggio che vale comunque la pena di fare. Avventurarsi nel territorio interiore di una persona spiritualmente ricca (non necessariamente colta) può essere più impegnativo ma anche più stimolante dei minuetti verbali a cui ci sentiamo obbligati dalla nostra educazione borghese.
Gli amici. Pochi ma buoni
Gli amici coi quali mi è dato di condividere questa avventura si contano sulle punte delle dita. In gioventù era più facile ed avveniva più spesso. Ricordo appassionate discussioni sui grandi valori, sui grandi temi dell’esistenza, discussioni non astratte, legate al vissuto quotidiano. Oggi, se mi capita di imbarcarmi in discorsi così coinvolgenti, accade sempre e soltanto per una mia iniziativa. Raffreddata, il più delle volte, dal silenzio imbarazzato e imbarazzante del mio interlocutore.
Alla difficoltà oggettiva, psicologica e culturale, di entrare in sintonia con qualcuno, si assomma il gioco, ormai quasi istintivo nei più, della dissimulazione. L’attenzione costante a non lasciarsi coinvolgere in giudizi che possano identificare per ciò che si è e si pensa veramente. Mai come in questi casi ho la percezione esatta del danno che ricaverò dalle mie affermazioni. Mi riterrei un masochista se proprio l’imbarazzo degli altri non mi offrisse una piacevole sensazione di libertà.
C’è poi una terza categoria di interlocutori possibili, quelli bravissimi a simulare in privato – oggi con me, domani col mio peggiore nemico – una perfetta convergenza di idee e di opinioni. Sono gli stessi che non prendono mai posizione in pubblico, e sono i più pericolosi.
Montaigne e il mestiere di giornalista
Quanto a seguire il consiglio di Montaigne – portare l’interlocutore sui temi che meglio conosce – non sta forse in questo il mio mestiere di giornalista? La questione, a giudicare almeno dal modo in cui sono condotte oggi le interviste agli esperti, sulla stampa e in televisione, non è affatto pacifica. Ci sono tanti modi per scegliere e formulare le domande. Il più corretto sarebbe quello che tende a far luce sulla nostra ignoranza, ma ho l’impressione che sia anche quello meno praticato.
Io stesso non sfuggo sempre alla tentazione di far confermare all’intervistato quello che ho già appreso per altre vie, la piccola “verità” che mi propongo di dimostrare. Lo ritengo un peccato veniale quando l’intervista giunge alla fine di una ricerca accurata su tutte le fonti, quando la verifica sui fatti è stata portata a termine con sufficiente imparzialità, ciò che avviene ormai sempre più raramente.
Il giornalismo di inchiesta
In genere, oggi, quando si comincia un’inchiesta si conoscono già le conclusioni a cui si vuole arrivare, e poiché non mancano esperti schierati su tutte le questioni, basta scegliere quelli che fanno più comodo alla propria tesi. A completamento della frode, si può offrire un po’ di spazio alla campana avversaria per dare al lettore il “fumus” dell’obbiettività, e il gioco è fatto.
Tanti anni fa, quando il giornalismo “di inchiesta” era ancora una cosa abbastanza seria, valeva la regola che il giornalista andasse per prima cosa a documentarsi sul fatto o sull’ argomento in questione dalle persone più competenti a trattarne – i protagonisti della vicenda in primo luogo e gli specialisti della materia – riservandosi il compito di riferire al gran pubblico i risultati di questa ricerca personale nel linguaggio più adatto.
C’era chi svolgeva il compito con superficialità o, peggio, con faziosità, ma in generale chi si proponeva un’indagine seria aveva modo di realizzarla. Soprattutto, nessuno metteva in dubbio l’opportunità di dare più spazio a un testimone diretto come il giornalista inviato sul posto piuttosto che al commentatore o al conduttore di turno.
Dall’inchiesta al talk show
C’era il confronto tra le opinioni come nel famoso “convegno dei cinque”, ma quasi tutto il tempo oggi occupato dai dibattiti e dai “talk show” sulle televisioni pubbliche e private era riservato ai documentari, alle inchieste approfondite, ai servizi speciali. Quello che si diceva alla gente era più importante del “come” lo si diceva, pur essendo la forma nient’affatto sottovalutata.
Avendo vissuto direttamente e in prima persona questo passaggio, mi sono chiesto tante volte quali cause l’abbiano determinato. Quando ne ho parlato a un illustre dirigente televisivo, se l’è cavata col dire che c’è stato il passaggio dalla televisione artigianale a quella industriale. Sottintendendo, immagino, complesse e inesorabili ragioni di costi e produttività. Spiegazione accettabile, ma non so quanto compatibile con gli emolumenti “americani” riconosciuti a certi conduttori di “talk show” che vanno per la maggiore.
Mi convince di più un’altra ipotesi, e cioè che la concorrenza “commerciale” tra informazione e spettacolo abbia portato prima negli Stati Uniti e poi, di rimbalzo, da noi, alla spettacolarizzazione “forzata” della notizia come del relativo confronto di opinioni. Alleggerendone i contenuti, semplificandone i termini, enfatizzando le contraddizioni e i contrasti, eliminando i toni grigi e sfumati che la complessità dei fatti e delle questioni oggettivamente richiede.
Democrazia e informazione
Accanto a questa ipotesi, se ne potrebbe rischiare un’altra, più politica. In una società, come quella occidentale e americana in particolare, che attribuisce più valore alla decisione e all’azione che alla riflessione e alla conoscenza, meno si è problematici e meglio è. Semplificando i termini di una questione, si rischia di commettere errori ma si decide prima. Analizzando la materia a fondo in tutti i suoi aspetti, si può trarre la conclusione più giusta, ma quando ormai è troppo tardi.
La democrazia moderna richiede sempre più spesso al cittadino di schierarsi da una parte o dall’altra, identificandosi con questa o quella corrente di opinione. Gli “opinion leaders” hanno interesse ad aggregare consensi nel modo più sicuro e rapido possibile. Ciò che si ottiene più facilmente con una versione mediata e unilaterale dei fatti piuttosto che con una testimonianza diretta e imparziale dei medesimi.
L’inganno è far credere che la possibilità di scegliere tra più versioni unilaterali, tra diverse faziosità, garantisca a sufficienza il diritto dei cittadini ad essere informati. Come se facendo una media dei “falsi” o ascoltando la propaganda più convincente si riuscisse a sapere come sono andate realmente le cose. Nessuno mi convincerà mai che udire tre commentatori di parte gioverà alla mia comprensione più che una sola testimonianza davvero indipendente.