Rigidità e rigore, due parole con la stessa radice. Sono anche, probabilmente, il mio maggiore difetto e la mia migliore qualità. E lasciandomi suggestionare dall’etimologia, mi viene da contrapporre la rigidità del ghiaccio (“rigida aqua”, dicevano i latini) alla fluidità dell’acqua. Se getti un sasso nel lago, né il sasso né l’acqua subiscono conseguenze. L’acqua si apre per accoglierlo nel suo seno e la sua elasticità le consente di ritornare come era prima dell’impatto. Il ghiaccio invece, colpito dalla pietra, può essere scalfito, spezzato, distrutto. La stessa sorte capita, il più delle volte, all’individuo rigoroso.
(Meditando Montaigne)
“Se dipendesse da me foggiarmi a modo mio, non vi è alcuna forma per quanto buona nella quale volessi essere conficcato così da non sapermene distaccare. La vita è un movimento ineguale, irregolare e multiforme.”. (Saggi, III, III”).
« Si c’estoit a moy à me dresser à ma mode, il n’est aucune si bonne facon où je vouleusse estre fich’ pour ne m’en scavoir desprendre. La vie est un mouvement inegal , irregulier et multiforme. » ( Essais, III,III).

Roma, Gennaio 1995 – Da tempo ho preso consapevolezza di quello che considero il mio difetto maggiore: la rigidità. E, insieme, di quella che è forse la mia qualità migliore: il rigore. Per l’una e per l’altro non credo di avere colpa alcuna né merito. Virtù e difetti , in questo come in tanti altri casi, sono facce di una stessa medaglia.
Leggo nel dizionario che all’origine dei due termini, rigidità e rigore, è una parola greca (rìgos) che vuol dire “freddo,gelo”. Il verbo latino “rigeo” ha un significato letterale (“essere freddo, essere intirizzito per il freddo”) ed uno traslato (“essere duro, rigido, inflessibile”). Dal Devoto-Oli, ricavo una definizione del rigore in senso figurato: rigida coerenza con le premesse o con un metodo, che è appunto quanto sembra condannare Montaigne.
Potrei dire, a mia difesa, che affidabilità, professionalità, puntualità sono valori difficilmente concepibili senza questa coerenza. Finché il rigore non sconfina nel fanatismo, è probabile che la società ne ricavi più vantaggio che danno. E l’individuo? Lasciandomi un po’ suggestionare dall’etimologia, mi viene da contrapporre la rigidità del ghiaccio (“rigida aqua”, dicevano i latini) alla fluidità dell’acqua medesima. Se getti un sasso nel lago, né il sasso né l’acqua subiscono conseguenze. L’acqua si apre per accoglierlo nel suo seno e la sua elasticità le consente di ritornare come era prima dell’impatto. Il ghiaccio invece, colpito dalla pietra, può essere scalfito, spezzato, distrutto.
Tra rigidità morale e insicurezza
La stessa sorte capita, il più delle volte, all’individuo rigoroso. Si può fare qualcosa per evitarla? Si irrigidisce il corpo animale impaurito, minacciato. C’è dunque un rapporto che possiamo definire fisico tra rigidità e insicurezza. L’irrigidimento è reazione istintiva del cervello animale, reazione tesa prima a confondere l’aggressore, come avviene col mimetismo, poi a concentrare il sistema nervoso e neuromuscolare preparandolo allo scatto difensivo. L’irrigidimento morale dell’uomo ha qualcosa a che vedere con questo? Quel che è certo è che anche la rigidità morale ha origine dall’insicurezza, dal timore di dare una risposta sbagliata e dolorosa o comunque spiacevole alle sollecitazioni che provengono dall’esterno.
Chi non è sicuro di se, quando non reagisce con una scomposta aggressività cerca di salvarsi con l’adempimento rigoroso della prescrizione morale. La rigidità denuncia insomma un deficit della capacità di adattarsi ai mutamenti dell’ambiente. Il biologo Henri Laborit parla al riguardo di un sistema inibitore dell’azione “che dà origine alla reazione endocrina di ‘stress’ e alla reazione simpatica vasocostrittoria di attesa dell’azione. La reazione adrenalinica che invece è vasodilatatoria della circolazione muscolare, polmonare, cardiaca e cerebrale, è la reazione di fuga o di lotta; è la reazione di ‘allarme’ che permette di realizzare l’azione” (“Elogio della fuga”).
Chi vuol salvare la propria vita la perderà
Mi accade talora di immaginare una risposta adeguata alle circostanze, desiderare di darla e contemporaneamente bloccarmi adducendo a me stesso e agli altri giustificazioni logiche di vario tipo. L’argomento è fornito a volte dalla prescrizione morale ma non sempre, così come la risposta immaginata non è necessariamente una risposta trasgressiva. A bloccare l’azione è sufficiente il sospetto – e quindi la paura – che il risultato sia più penoso o comunque meno gratificante della situazione presente. Più che dalle argomentazioni morali o razionali dietro le quali si nasconde, la paura è “rinforzata” dalle frustrazioni del passato.
L’accumulo di esperienze gratificanti favorisce l’iniziativa, l’accumulo di frustrazioni inevitabilmente la spegne. Dicono, e non ho motivo di dubitarne, che la paura sia sempre una soltanto: la paura della morte, che si rivela dunque paradossalmente la più grande nemica della vita. Essere “fluido” è dunque liberarsi da questa paura, accettare di essere altro da se, accettare di perdersi per ritrovarsi, accettare la morte per non morire. Come è scritto nel Vangelo: “chi vuol salvare la propria vita la perderà”. Come accade alla terra, che per produrre vita ha bisogno dell’acqua, il fluido che assicura lo scambio e il ricambio.
Chi rifiuta di misurarsi con la morte rifiuta di vivere
L’acqua penetra la terra e genera la vita. Penetra nei corpi viventi e la conserva. Nessun corpo sopravvive all’assenza totale di fluidità. Parole, mi dico poi, perché resta la contraddizione di fondo: posso io amare la mia vita e accettare la morte? Rifiutare la morte è istintivo per l’uomo come per ogni animale. La morte è sempre in agguato, ad ogni passo dell’esistenza. Senza l’istinto di conservazione nessuno potrebbe sopravvivere a lungo a questa minaccia. Al tempo stesso, però, nessuno può vivere senza esporsi continuamente ad essa.
Guidando a cento all’ora sull’autostrada o lavorando in precario equilibrio in cima a una scala so bene che un piccolo movimento sbagliato, una minima distrazione basterebbe ad uccidermi. Se quel piccolo movimento, quella piccola distrazione non trovassero un ostacolo quasi insuperabile nel mio istinto di conservazione, per me sarebbe finita. Ecco: l’istinto di conservazione non protegge la vita se non misurandosi continuamente col suo avversario, la morte. Chi rifiuta di misurarsi con la morte rifiuta di vivere. Temerario non è chiunque si misura con la morte, ma chi perde la misura di se stesso, delle proprie forze, delle proprie possibilità.
In questa temerarietà, in questa insofferenza del proprio limite che conduce al rifiuto di misurare, di calcolare il rischio, è il fascino eterno della tentazione dell’Eden, di cui mi propongo di scrivere nella prossima meditazione. Quanto a me e alla mia piccola esistenza, se quel poco di conoscenza che ho di me stesso non ha finora contribuito gran che a correggere la mia natura, è valso tuttavia a rendermi più tollerante verso le rigidità del mio carattere e di quello altrui.
Gennaio 1995